Un altro Natale incombe in calendario, un altro anno se ne va con il suo fardello di cose buone e brutte.
Auguri!
Un altro Natale incombe in calendario, un altro anno se ne va con il suo fardello di cose buone e brutte.
Auguri!
La malattia è un business per i medici e per le case farmaceutiche. La persona che si ammala ancor prima di fare i conti con la propria malattia, deve farli con le parcelle degli specialisti. Un fiume di denaro che entra nelle tasche dei medici, per quanto possibile lavato con qualche goccia di candeggina presa a prestito dalla Speranza. Non conta lo stato d’animo dell’ammalato: le sue paure, il mondo inquieto che gli appare, le attese interminabili negli ospedali e negli studi medici privati. Il sistema è ormai così ben consolidato che i medici ti appioppano la malattia con nonchalance, liquidandoti con un sorriso cancerogeno, promettendoti che puoi salvarti o quanto meno allungare la tua vita con la chemioterapia. False promesse, attendibili per fatalismo, sconcertanti nella realtà. Nel terzo millennio ammalarsi è una gran bella storia di finanza per il commercio dei farmaci. L’uomo, o meglio, l’ammalato è tenuto a distanza, chiuso nei suoi castelli di incomprensioni, di angosce e di dolore. Schiavo di accertamenti e di terapie, di consulti medici, costruisce ogni giorno il proprio infermo nelle corsie degli ospedali o nella propria casa. Con il tempo diventa relitto umano, privato di ogni dignità, alla mercé dei medici e dei loro inconcludenti protocolli terapeutici.
Dov’è la misericordia? Non c’è! Guai a chiedere informazioni sulla cura o delucidazioni a medici e a personale sanitario in genere, non sanno, fanno finta di non sapere, fuggono, hanno altro da fare. Una visita medica specialistica è standardizzata al tempo massimo di dieci-quindici minuti, effettuata con superbia accademica. Nei maggior parte dei casi si conclude con una sfilza di esami diagnostici prescritti senza lasciar trapelare nulla in ordine alle possibili cause della malattia. Gli occhi dell’ammalato sprofondano nelle tenebre dell’angoscia. Nella solitudine della malattia si instillano flebili speranze e devastanti chemioterapiche. Lasciateci morire in pace.
Fra mille pensieri come farfalle, in questo giorno di discesa, inevitabile travaglio di scrittura, mi azzardo a rettificare l’impressione di una realtà subdola, solletico di attrazione, anzi di interesse.
Userò la sintassi dei poeti che non si prostrano agli idoli di cartone né agli uomini mendaci; ne conseguirà eresia contro il falso perbenismo di uomini gonfiati di supponenza e di superbia, falsi moralisti che di sera vanno a puttane e di giorno magnificano la dedizione alla propria famiglia. Maschere di un destino infame. L’abito e la maschera sono di Pulcinella, ma il cuore non è di Pulcinella. Eppure sono giunti alla fine, hanno perso le battaglie più importanti della loro inutile vita, ma non perdono il vizio di profumarsi di onestà. Quale onestà? Quella di avere inventato la creazione di sé stessi, spacciandosi per divinità e per padri integerrimi. Inventori del Nulla e della irreale realtà perversa, che sta all’origine di tutte le loro malefatte. Guardano con diffidenza gli altri, adoperandosi in ogni modo per sopraffarli con la sentencia mágica. Sono mostri che si nutrono di vermi e camaleonti nel loro stesso arido deserto di anima. Applicano diligentemente la geometria degli inganni nelle architetture di false verità. Recitano salmi diabolici.
Hanno creato il proprio Dio pur riconoscendo esistenza al vero Dio, senza però rinunciare ad esercitare il diritto di convivenza con il Dio giusto: una commistione orripilante che li accomuna ai Grandi Signori del Male. Il Male che ogni giorno dispensano è per essi festosa perversione, sacralità della maschera a sostegno dell’artificialità di tutte le cose. Nella Cena delle Ceneri proclamano che l’universo è tutto centro, o che il centro sta in essi e la sua circonferenza in nessun luogo.
A chi si specchia e non si vede più, e non sa chi sia, ma con gli occhi grandi d’invidia s’inventa un nemico di tante parvenze. Suona l’ora! Strana favola di vita. Non ha lo specchio. Si mostra in cielo e terra qual é, sempre in sussulto, a sporcare il cielo di un poeta. Si spegne, risorge, trema, si allenta. Di vecchie arie sperdute di comunismo indora i concetti di spergiuro. Piove e si avvicina la tempesta. Errabondo per parole di maldicenze, in un libro con le righe verticali sogna una sua storia. Ed è tardi. Si ode il belato delle capre tutt’intorno, in una, sento querelarsi ogni altro male, ogni altra vita.
Il nome è importante: sacro e gradito al dio di tutti gli dèi. Ha amato come nessun altro al mondo, di un amore giusto e sensato, così forte che mi stupisco non abbia fatto scoppiare il cuore.
Il dio della parola non ha ancora creato sé stesso né sostanziato il suo spirito per rivelarsi nella testimonianza di verità. Dio è soffocato dalla menzogna che è femmina nel verbo dell’inganno. È nell’idea di giustizia di cielo in nubi intrappolate dall’angelo bello e presuntuoso, architetto delle cupole che s’innalzano in un altro luogo senza il sole: sprofonda nella bruma dell’orizzonte ogni ragione. L’angelo distruttore non sente il suono della voce a venire, scortica vitelli nelle macellerie della tragedia, alle porte di un miserabile paradiso. È l’angelo che commercia gioielli e fa dimenticare le leggende dei padri onesti nel bel regno del vento di ponente che inabissa la voce di lamento dell’universo.
Il dio della parola negli specchi dei giorni andati vede il dolore dell’onore che si dimena nel testo di un destino beffardo, e riecco le ombre e i compagni morti inutilmente nella forma stabile della sua ombra. L’agguato è stato teso: l’ago dell’indicibilità non chiude la ferita e i lupi di ogni sorta attendono il sangue per trastullarsi ancora una volta a tavola con l’angelo e i vampiri.
E di pianeta in pianeta, di nebulosa in nebulosa, pur senza muoversi il cielo, il dio della parola attende il trono che gli spetta, e tanti universi si oblieranno, e i fantasmi scheletrici delle parole di oppio e di cianuro svaporeranno dai testi sacri del dio della parola. Non ci saranno pianti; ci saranno gigli di bellezza che nel chiaro di luna del mese di settembre offriranno effluvi di profumo al cielo. Godrà il dio della parola, pronunciando finalmente sé stesso: Giuseppe.
A Tuglie c’è una risma di buontemponi,
che si trastullano in piazza felici come aquiloni,
qualcuno con paglietta, qualcun altro con barbetta,
altri con maglietta e giacchetta.
Bevono caffè alle cinque e alle sette
ogni giorno con o senza anisetta,
quando poi, il piccione poggiandosi lieve
sul balcone, sente di dover rilasciare un ricordo:
li caga addosso con il loro disaccordo.
Echeggia dunque per la piazza la bestemmia,
ad udire la blasfemia anche il prete Geremia.
Tutti a ridere… dal banchiere al salumiere,
ma c’è Gianluca a smorzare
l’incidente cagatorio
con un altro caffè consolatorio.
Mi venne incontro una donna che pareva ragazza, la notte precedente alle sue nozze, aveva in mano un’orchidea rossa e nell’altra un garofano blu, copriva il suo corpo un velo turchino immacolato ma trasparente. Sorrideva con le labbra appena tracciate di gelso, non faceva nessun conto dei cani che la seguivano in processione senza fiatare latrato, mansueti come agnelli con gli occhi appuntiti di ferocia.
Scoppiò un tuono e scosse gli alberi docili di eucalipto allungati a schiera sul viale che portava alla villa della signora. Un grande fuoco si prodigò nelle varie direzioni bruciandosi nelle sue stesse lingue di fuoco. Sul ventre della donna intanto prendeva forma l’impronta di un sigillo: un leone. Si contorceva con eleganza e con atteggiamenti erotici. Mi avviai verso di lei con desiderio. Sorrideva e mi invitava. Caddi nelle sue succinte mele di bellezza. Toccai con timore le sue labbra per assaporarle: di miele e ciliegie, di incenso. D’improvviso un morso, glaciale, puntorio, piacevole, onirico, sul collo mi avvalse di luce superiore. Non ebbi il tempo di conservarmi in una preghiera di salvezza, già l’arcangelo nero brandiva la spada. Mi ritrovai nella bolgia dei renitenti. Una donna mi disse di non pensarci e si sperare in un’occupazione decente e meno faticosa. Fui condannato a conteggiare le ore del sole e delle luna. Apparve di nuovo la donna con le labbra tracciate di gelso: le chiesi di uccidermi ancora, senza pietà e nella dolcezza dei fiori acerbi.
I lettori non mi diano addosso se non riferisco tutti i fatti né narro in modo esaustivo quelli presi in esame tra i più celebrati, ma per lo più in forma riassuntiva. Io non scrivo storia, ma biografia; e non è che nei fatti più celebrati ci sia sempre una manifestazione di virtù o di vizio, ma spesso un breve episodio, una parola, un motto di spirito, dà un’idea del carattere molto meglio che non battaglie con migliaia di morti, grandi schieramenti di eserciti, assedi di città. Come dunque i pittori colgono le somiglianze dei soggetti dal volto e dall’espressione degli occhi, nei quali si avverte il carattere, e pochissimo si curano delle altre parti, così mi si conceda di interessarmi di più di quelli che sono i segni dell’anima, e mediante essi rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri la trattazione delle grandi contese.
(Plutarco, Vite parallele)
«Il culto del calcio» è un florilegio destinato agli amanti del calcio. Prediligendo il cenno, il rimando, la suggestione alla sperimentata trattazione saggistica, è nei fatti una variopinta collezione di testi, autori, commentatori e personaggi che gravitano intorno al calcio, al suo «culto» e alla sua attualità. Un mondo che Elio Ria osserva da dentro, vinto e avvinto dalle sue trame insieme culturali e sociali. «Di calcio si vive!» e vivo è questo libro, appassionato e appassionante, sul gioco giocato e il suo contesto, tanto più grande quanto più è piccolo.
Sul calcio, specchio della civiltà, si riflette qui senza timori. Denunciando, ricordando e rimpiangendo, senza però smettere di immaginare un culto nuovo, o meglio: rinnovato, com’è ogni culto, a partire dai «fondamentali». Senza ulteriori indugi, si è invitati a riscoprire lo spirito originario d’un mondo che da troppo tempo è lasciato a sé stesso. E che, di rimando, soli ci lascia.
Girovagando per quel mondo, il lettore è allora condotto per mano in luoghi spesso misconosciuti, inaspettati, sorprendenti, per incontrare edificatori come Leopardi e Pasolini, Pindaro e Borges, ma anche Brera e Magrelli, assieme ai demolitori di quel tempio sportivo fatto di terra, sudore, passione e potere che letterature, filosofie, cronache e poesie hanno dovuto affrontare fino in fondo per potersi dire vicine agli uomini e alle loro più vibranti attività.
Davide Dell’Ombra
Ansia per andare altrove: nel giardino degli angeli con l’avambraccio gonfio; mentre qui nell’inferno certi profeti sproloquiano con la lingua a mo’ di serpi salottiere, e volano come pipistrelli di borgo. Poi più in là dove le streghe si riscaldano con la saliva, certuni scrivono bibbie di moralità per i loro stupidi adepti che non sanno leggere. Ah, quanto caro mi fu un tempo l’inferno. Ora è infestato di demoni che sono angeli e di puttane che sono madonne.
Non sostengo nessuno, neanche me stesso, libero dagli affanni, osservo per non osservarmi e giungere alfine nella dimora dove non comporrò in metro, ma scherzi fra coppe di veleno. Mi siedo su una nuvola dispersa nel cielo come l’indiano sfrattato, io piccolo, e secondo l’uso e il modo del tempo parlerò alle stelle per farle muovere il piede.
Il 23 aprile 1616 morì William Shakespeare. Le incertezze biografiche sono tante, alcune sono ormai accettate come ufficiali, come la sua data di nascita che si è voluto farla coincidere sia con il giorno della morte, sia con la celebrazione della festa di San Giorgio, patrono d’Inghilterra. La data del battesimo 26 aprile 1564 si conosce con precisione grazie al ritrovamento del registro battesimale della chiesa di Stratford.