(Poesie, trad. it. di L. Frezza, Rizzoli, Milano, 1974)
Verlaine già dai primi versi esprime la convinzione che la poesia deve essere prima di ogni altra cosa musica. Il conseguimento della musicalità è dato dai versi dispari che, con il loro ritmo irregolare e mosso, sono privi di artifici retorici e di convenzioni letterarie.
La parola deve suggerire, avere una particolare forza allusiva, in linea con i canoni della poesia simbolista che deve produrre suggestioni più che descrizioni, fatta di impalpabili realtà. L’atmosfera dell’irrealtà deve espandersi con le sfumature dei colori. La poesia deve ripudiare l’espressione concettuosa (L’Arguzia) e ogni forma di tecnica retorica e superata, e ancora bandire dai versi l’eloquenza, cioè il bello scrivere codificato dalla tradizione letteraria, vecchio e logoro strumento della poesia.
Il titolo della poesia di Verlaine prefigura un vero e proprio manifesto poetico e come tale è importante per comprendere la poesia non solo di Verlaine, ma più in generale della poesia simbolista in contrasto con la poesia classica.
Questi scritti sono di un uomo, la cui vita è in tensione tra poesia e filosofia. Con il cuore ho verseggiato e con la ragione ho contemplato il ritmo in strani e tristi errori di considerazioni, ma anche di sofferenze circoncise dall’illusione.
Questo libro, che riesco sempre a desiderare e che non smetto mai di spogliare delle sue incompletezze, mi consola. Mi appare oceano e lago, amico buono e giusto. Non ho fede in esso.
Questo libro vorrei ancora riscriverlo.
Poesia, ragazza mia è una dolce follia, un concerto d’inferni, un angolo di purgatorio. Muoio nei suoi sortilegi di poesia, risuscito nei suoi pensieri di filosofia.
Della potenza meravigliosa del loro effetto (si riferisce al ritmo e alla rima) io non so darmi altra spiegazione se non questa: che la nostra facoltà di rappresentazione, essenzialmente legata al tempo, acquista con il loro aiuto un’intonazione speciale, che ci spinge a seguire interiormente ogni uomo che si ripete a intervalli regolari, e ci fa quasi vibrare all’unisono con quello. In tal modo il ritmo e la rima tengono incatenata l’attenzione, perché ascoltiamo la recitazione con maggior piacere; fanno inoltre sorgere in noi una disposizione cieca, anteriore ad ogni giudizio, di acquiescenza alla cosa che si recita; il che le conferisce una certa potenza enfatica e persuasiva, indipendentemente da ogni ragionamento.
(A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1859), trad. it. Mursia, Milano, 1969, p. 285)
Una Cecala, che pijava er fresco all’ombra der grispigno e de l’ortica, pe’ da’ la cojonella a ‘na Formica cantò ‘sto ritornello romanesco: – Fiore de pane, io me la godo, canto e sto benone, e invece tu fatichi come un cane. – Eh! da qui ar bel vedé ce corre poco: – rispose la Formica – nun t’hai da crede mica ch’er sole scotti sempre come er foco! Amomenti verrà la tramontana: commare, stacce attenta… – Quanno venne l’inverno la Formica se chiuse ne la tana. ma, ner sentì che la Cecala amica seguitava a cantà tutta contenta, uscì fòra e je disse: – ancora canti? ancora nu’ la pianti? – Io? – fece la Cecala – manco a dillo: quer che facevo prima faccio adesso; mó ciò l’amante: me mantiè quer Grillo che ‘sto giugno me stava sempre appresso. Che dichi? l’onestà? Quanto sei cicia! M’aricordo mi’ nonna che diceva: Chi lavora cià appena una camicia, e sai chi ce n’ha due? Chi se la leva.
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Carlo Albero Salustri, più conosciuto con lo pseudonimo di Trilussa – anagramma del cognome – 1871-1950), è stato un poeta, noto per le sue composizioni in dialetto romanesco.
non pregare mai nessuno di parlare di te, neppure con benevolenza. Se il tuo nome circola fra le gente, fai in modo di non prenderti sul serio, non soffermarti sugli elogi e sui sorrisi, deponili nella scatola delle cose inutili e dimenticali. Ieri erano contro di te, ora ti frequentano con piacere. Tu lo sai che sono belve. Non ti chinare. Non tentare d’ingrandire quell’infinitesimo amor proprio che nell’alambicco delle vanità lievita con la forza del potere.
Non potevi aspettarti tanta gloria. Poeta fuori del tempo, nelle stanze dei vetri e degli specchi l’equivalente del tuo io è visione interna. Caparbio come sei non vuoi più uscirne. Ogni tanto vuoi vedere i passanti, con cautela osservi quando decidi che ci sia il momento giusto di decisione per cominciare un calco di realtà.
Non sopporti più nulla della realtà. E dei compratori di oro dici di non stare molto tranquilli. Quanto agli aghi degli adulatori per stoffe immeritate, strappi i punti cuciti con la delicatezza del tuo animo.
Se potessi vivere di nuovo la mia vita.
Nella prossima cercherei di commettere più errori.
Non cercherei di essere così perfetto, mi rilasserei di più.
Sarei più sciocco di quanto non lo sia già stato,
di fatto prenderei ben poche cose sul serio.
Sarei meno igienico.
(J.L. Borges, Se potessi vivere di nuovo la mia vita, vv. 1-6)
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Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo, noto come Jorge Luis Borges (Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986), è stato uno scrittore, poeta, saggista, traduttore e docente universitario argentino.
La preoccupazione del poeta non è di piacere al lettore e carpirne la sua attenzione o benevolenza, piuttosto vedere attratto il lettore dal linguaggio affascinante della poesia che non vuole essere soltanto verità o dimensione visuale inoppugnabile del poeta, ma una traduzione della realtà purificata dai suoi stessi preconcetti.
La congiura dei Pazzi, così detta dalla famiglia che la capeggiò per annientare la famiglia dei Medici, conclusasi il 26 aprile 1478 con l’uccisione di Giuliano de’ Medici e il ferimento di Lorenzo il Magnifico, certamente è la più famosa congiura italiana. L’intento dei Pazzi era di contrastare, così come ce lo racconta Niccolò Machiavelli nelle sue Historie Fiorentine, la supremazia di Lorenzo il Magnifico che ambiva a dominare la città di Firenze. L’aggressione si svolse nella cattedrale di S. Reparata, dove i due fratelli usavano recarsi.
La congiura oggi come allora è sempre pronta, strumento che gli uomini non disdegnano per raggiungere i propri scopi, abilmente camuffati. Qualcuno c’è sempre che ci rimette le penne, non morirà, ma sarà definitivamente annullato o, ben che gli succeda, ridimensionato nelle sue attività. La politica è maestra di congiure, nel corso degli anni ha affinato le tecniche di preparazione del piano delittuoso e di esecuzione. Congiure annunciate ovviamente come trasformazioni naturali di un processo evolutivo sociale ma che in realtà si dimostrano un ristabilimento di privilegi di ogni genere per la casta al potere. Il bene comune è giustificato da qualche minima concessione: fumo negli occhi per non apparire tiranni.
Questa dei Pazzi ha qualcosa di surreale, di fantastico storico che sembra reale e attualizzato nel nostro tempo. Oggi ovviamente i Pazzi non sarebbero una famiglia, ma folli per davvero.
Nelle democrazie occidentali non si compiono, almeno nella maggior parte dei casi, con il sangue, ma in maniera subdola, quasi con garbo e raffinatezza. Alcune volte sembrano essere necessarie e decisive per la sorte di un Paese, altre volte rappresentano un vero e proprio imbroglio democratico legittimato dalla politica. Nessun popolo o società è immune dalle congiure. Arrivano, passano, ci si dimentica. Ritornano e fanno danno, alterano equilibri di ogni genere, colpiscono i deboli e chi non è avvezzo all’intrigo.
Le pagine bianche a righe potessero rimanere tali, almeno in molte occasioni, non si dispiacerebbero. Quanto inchiostro versato, maleodorante, refrattario al significato delle parole, si spreca ad opera degli inventori di favole per infiorare storie inutili: tormento per i lettori. Non un trasalimento, ma un florido sbadiglio. Quanti ritorni sul già fatto e sul già detto, nonché sul già scritto. Ma si continua a pisciare pagine, nonostante ci siano mille ragioni per non farlo.
Nessun uomo è mai stato un grande poeta, senza essere stato allo stesso tempo un grande filosofo.
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I cigni cantano prima di morire; non sarebbe un brutto affare se certa gente morisse prima di cantare.
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Chi si vanta di aver conquistato una moltitudine di amici non ne ha mai avuto uno.
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I critici sono di solito persone che avrebbero voluto essere poeti, storici, biografi, hanno messo alla prova il loro talento, e non hanno avuto successo.
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Samuel Taylor Coleridge (1722-1834) è stato un poeta, critico letterario e filosofo inglese. Viene considerato insieme all’amico e poeta William Wordsworth tra i fondatori del Romanticismo inglese.
Il libro arricchito da citazioni di poeti, filosofi e scrittori diventa nella lettura un compagno fra le righe della poesia e della prosa, dove il poeta pur raccontandosi ed evidenziando le sue paure, le sue felicità, le sue meraviglie, traccia un sentiero di radicale adesione alla vita, parlando del mestiere di uomo e di quello di poeta.
I fatti più semplici sottratti all’approfondimento dimostrerebbero, poi, colpa di negligenza. Un gesto, una parola, un sorriso, sono semplici avventure umane di ogni giorno, di cui non si coglie l’aspetto peculiare della ripetizione e del cerimoniale della vita.
Sopraffatti dalle articolazioni iperboliche del vivere a strappi non si riesce a comprendere il significato delle disattenzioni che si pongono nei confronti di se stessi e degli altri.
Si va per superficie, dimenticando di andare anche per profondità. Si dimenticano e si assottigliano, nel ritmo incalzante dell’agire, le cose conseguenziali al miglioramento della qualità dell’esistenza.
Si disfa la forma della materia che della parola è sostanza nelle nuove residenze della scrittura frivola. La prossimità dello spazio visibile di uno sguardo è lontana: i lineamenti di un paesaggio dell’alfabeto non è misurabile. Quel luogo dove qualcosa potrebbe nascere, da cui qualcosa potrebbe scaturire non si compone nei versi del poeta.
L‘aver luogo dell’atto poetico, soprattutto fra terra e cielo, in una congiunzione di necessaria e indispensabile disarmonia, vorrebbe una geografia della poesia, un altrove d’invenzione di parole: distanza approssimativa della poesia e del luogo che precede l’immaginazione per conseguire un oltre.
L‘oltre è mondo che raccoglie la prima stesura dell opera, la ritrae senza ombre, con luce. Istigatore della vena, suscita sussulto nel poeta, è mezzo che conduce alla visibilità del venire in poesia in nuova geografia della parola che del suo luogo prescelto è rivelazione di qualche verità messa allo scoperto in un suo apparire di fulminea ispirazione.
“A ciascuno la sua follia: la mia è stata di credermi normale, pericolosamente normale. E poiché gli altri mi parevano folli, ho finito per aver paura, paura di loro e, più ancora, paura di me stesso “
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Émile Cioran (1911-1995) è stato un filosofo, scrittore e saggista rumeno. In ambito filosofico non appartiene a nessuna corrente di pensiero. Il suo stile è fin troppo diretto, caustico, emotivo. Scrive non per pubblicare le sue opere, bensì per alleviare la propria sofferenza, causata da un’insonnia costante che lo conduce sull’orlo del suicidio.
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