Nel mio girovagare fra libri antichi ho trovato una pagina scritta l’11 giugno del 1920 da tal Gesualdo Beniamino, nato con molta probabilità a Tuglie nel 1900, non registrato all’anagrafe poiché figlio illegittimo di un notabile, trasferitosi poi a 18 anni a Parigi. Vi riporto alcuni passaggi del testo di questo dolce e sentimentale scrittore.
Senza nulla di più ciò che un sorriso rappresenta per l’anima, considero il chiudersi continuo della mia vita in questa via, in questa stanza, nell’ambiente di queste persone. Ho avuto grandi ambizioni e sogni, ma i sogni nel mio paese sono impossibili e del tutto impossibile immaginarli. […] Se scrivo è perché sono nell’eternità delle cose irraggiungibili. Adesso sul quarto paino dell’infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, i miei sogni muovono con l’accordo del mio cuore, con una distanza rivolta verso viaggi impossibili, ipotetici, o semplicemente impossibili. […] La mia anima è un’orchestra disordinata, con strumenti inadatti, molti timballi e pochi tamburi. Tuttavia, in essa mi conosco come una sinfonia.
Ho sensazioni assurde. Ho capito di non essere nessuno. Nessuno, assolutamente nessuno. Sono stato sottratto all’esistenza, quella certificata e scartoffiata nei mobili polverosi delle municipalità, volutamente occultata. Sono la periferia di un paese inesistente. […] Penso che in me esista l’inferno, e ride, senza l’umanità di diavoli che ridono, la follia starnazzante dell’universo morto.
Qui finisce il testo e la storia di quest’uomo sottratto alla propria esistenza.
20/06/2023