Battuto dai venti e dalle acque nella lunga stagione non ascoltò l’acuto grido della legge, morì il re.

In un paese dell’Italia meridionale, in basso alla punta del tacco, prospiciente il mare, intorno all’anno 1211, fu incoronato re Aipino III della tribù dei topi, figlio di Topin I e di Topessa della Murgia.

Paura, però,  ebbero le zanzare e i pipistrelli. Si prostrarono i gatti e le rane e i buoi. Molta gloria ebbe e crebbe felice sui prati verdi. Roma non mostrò ostilità e l’alloro inviò. I forestieri non ebbero memoria del passato, e non seppero mai dove fossero capitati.

Nessuna difesa era più necessaria, Aipino III regnava e mangiava a grandezza senza pesantezza. Nel Gabinetto di pubblica lettura leggeva sopra ogni misura di conoscenza e di scienza. Il giovedì si recava dal dotto Vane Vanzi, mentre il venerdì dal poeta Tocchi Paraocchi, discendente di Omero. Il sabato aveva usanza di andare nella vecchia chiesa del paese  a rosicchiare zitelle di annata;  la domenica puliva i suoi denti con il superdentex.  Suo zio il conte Pitzer gli regalò la biblioteca reale, guarnita di libri di bellissima sembianza con oro e nastri tricolori, dove amava passeggiare rosicchiando parole di poeti e di filosofi.

Non molto lunga fu la sua età. Morì con ipotesi di un sentimento, sostenuto da altra sorte e altra natura, senza gloria.

Si scelse allora un nuovo re dalla tribù dei cani randagi: gli fu dato il nome di Federec Ra XV e il comando di ogni forza di terra e di mare. Abbaiava troppo e per tacitarlo si decise di rinchiuderlo nella Torre sita nella campagna di Parabita, feudo del conte Gabbius Antonino da Ventura, padre di  Ignazius Preziusus governatore della Contea di Tuglie.

Si scelse ancora  un nuovo re dalla tribù dei Conti mediani della famiglia Aximus De Starre, un cavallo di media stazza che non aveva nemici durante il camminare innanzi al popolo dei gatti e delle gazze. Cortese a tempo, servile di aspetto, diceva di essere ben legato e stretto e che non poteva fare scherzi alcuni. Dimorò in ville di proprietà della  gatta di Parabita, trastullandosi come un duce seppure in assenza di luce. Gelò però sotto la favella di un noto anarchico di Parabita  tal Anonymus  Antoniunus, che latrava giustizia.  Il Gran Consiglio del Regno (dormiente) pensò che era giusto per calmare le acque di avvelenarli entrambi per disfarsene per sempre. Così fu fatto.  Seguì funerale di Stato con regine e re di ogni contrada. Giunsero da ogni paese le pettegole vergini. Piansero tutti, e a sera si  scordarono del re defunto e del suo accusatore.

Proclamarono d’urgenza re Mimotto del Botto, duca di Sfigaperpetua. Risero tutti e mangiarono in abbondanza fra pizziche e tarantelle.

Durante la festa arrivarono d’improvviso i soldati e imprigionarono il cardinale Rimerio Antes, discendente del re di Albania per presunti traffici gattari in combutta con il re Mimotto. Il re fuggì e non se ne seppe più nulla.

Si riunì nuovamente il Gran Consiglio per dare un re alla Terra di Telemaco, ma non trovarono l’accordo necessario a comporre il re per l’ostilità del principe vedovo S.A.R. Binchion Servus Semper, che con autorevolezza squarciò: «con tutti gli sforzi che io faccia qui non trovo legittimo potere, da molti eletto sono costretto a fare l’angioletto, non accetto orbene il vostro fare circospetto,invoco giustizia e chiedo che tutti i topi siano messi in catene giù nelle segrete». «Sì, ha ragione il Principe, si faccia subito re il principe Binchion», urlò il cancelliere. I topi anziani rintanati nel castello reale, decisero che serbare l’equilibrio stabilito tanti secoli fa non era più fattibile, s’imponeva la fuga verso il Cile. Arrivò però  il messo comunale Ezius degli Ozius che consegnò al cancelliere la notifica dell’Imperatore Gabbius. «Zitti » – ordinò il cancelliere –  «Il Giudice visto e considerato, premesso e ritenuto, accertato, e non accertato, per tali motivi nomina Reggente pro tempore del feudo di Tuglie Binchion Servus Semper.  Così si è deciso e così sia fatto».

Tutti a urlare: «Lunga vita a Binchion Servus Semper! W il Reggente!»

Cose normali nel paese degli animali, dove ogni cosa è messa a posto pur in assenza di assetto di guerra  e ciò che conta è la razza per tenere la piazza. Vennero da tutte le topaie i gentil topi e le gentili topesse inghirlandate e profumate. Vennero i gatti mangioni accompagnati dai compari sciacalli. Vennero in tanti, in molti, e si stanziarono nei prati e nelle ville. E tutti danzarono e mangiarono, bevvero e scordarono.

26/11/2015

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