Così lo chiamano tutti.

Il soprannome è un’antica usanza paesana per identificare in modo inequivocabile una persona.

Giovanni te le ove, molti anni fa, vendette una moltitudine di uova. Per tale ragione si è meritato, conquistato, il titolo te l’ove.

Lui le uova, ancora,  le ha nel cuore. Giovanni, tondo come un uovo, corpulento e panciuto, ricco di albume e proteine, immagina il mondo come un grosso uovo. Claudicante nel parlare, inventa sovente strani neologismi.  Ride, scuote la testa, s’incunea nei discorsi con straordinaria comicità.  Non resiste al profumo della mortadella e del pane caldo.

Del tempo che non spende non si muove nessun rimprovero.  Delle ansie del mondo tace e soggiace al sorriso di una battuta.

Giovanni te le ove, così è noto,  filosofeggia con piacere la sera con i soliti amici; beve caffè in ghiaccio;  è studioso di Omero e di Epinemone; mentre del mangiamento è cultore. Non ha memoria, d’altronde cosa dovrebbe farsene, atteso che è infinitamente presente soltanto nel presente, quanto basta.  Geniale nel leggere oltre il vero significato delle parole, scompone parole per ricomporle in un nuovo dizionario della lingua dialettale.

Sue citazioni famose: l’acqua del mare va e viene… lasciala andare. La fuga del cavallo morto è già andata. Mangia e non dormire. Il cavallo di Agamennone era veloce come il piede di Achille. La maga Cirse (o forse Cinzia) trasformò gli uomini in galline per nutrirsi meglio di uova.

Giovanni nelle sue divagazioni mentali rallegra la compagnia di amici che, nelle sere agostane, s’incontrano al bar illollò,  come ai tempi andati del buon vicinato per srotolare quotidianità.  Fa da scacciapensieri, nei suoi ragionamenti non si palesa mai il dubbio: tutto è chiaro e trasparente come il bianco dell’uovo.

Donna Summer, la sua donna, donna felicità, lo accudisce e lo nutre con amore, sopportando la sua indole di buontempone. Giovanni ricambia con languidi e incompleti ragionamenti, che seppure sintomi d’innocenza e di fioritura di bontà, affliggono il senso pratico delle cose.  Maestro delle orchestrazioni narrative elegge il vuoto a protagonista principale, e intorno ad esso costruisce il racconto di un fatto attraverso una edificazione laboriosa di stranezze.

Le uova, le galline, i galli sono il centro di gravità della sua vita. Cosa mai può capirne di tutto ciò la Dina te Parabita? (sua amica) Niente, ovviamente.

Eh sì, è davvero una commedia (degli equivoci) al bar Illollò, la sera, d’agosto, con lu faugnu che uccide, e lu Ppinu ca nu sente, ma ole cu sape tuttu. Sempre spramatu, pareddhru, nu nde tane mangiare pe via (comu tice muierasa) te lu risentimento intestinale. Cci ghe sta cosa poi nu è datu sapire. Fattu sta, ca stu cristianu mangia sempre minestre e schiacciatine te carne, la sera dopo le undici. Allu pomeriggiu, invece, pane squaiatu intra l’acqua cu llu zuccheru. Pe quistu tene sempre nu culore iancu, ca te spaventi cu llu viti. Ma iddhra, muierasa, se nde frega, iddhru nu ave mangiare tutte le cose, solamente pane e acqua. Comu face cu campa stu cristianu è te veru nu miraculu.

Certamente brava gente, magari con qualche ragionamento stonato, ma con buone maniere come Luigi e Carmelina. Luigi, educato, discreto, assiste alle furiose disquisizioni con distacco, e quando ritiene utile lancia un richiamo alla normalità. Carmelina delizia con racconti di vita, diciamo storielle, qualche volta piccanti, ma sempre con un risvolto morale.

Eh sì, storie insignificanti, banali, gratuite in cui Giovanni (te l’ove) frantuma tutti i nessi logici per sorprendere e strappare una risata.

Così, dunque, trascorrono le ore, dopo le ventuno, questa gente d’altri tempi che – nel convivio serale – rivivono qualcosa del passato che soggiace al ricordo. Giovanni è tassello di queste storie minime, (ma significative) di parole e immagini.

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