‘Miei affezionatissimi genitori con gioia e piacere vi comunico le mie care e buon e notizie. Il giorno del Santo Natale non ho ascoltato la Santa Messa com’era nell’obbligo negli anni scorsi. Ho ricevuto le vostre lettere. Spero che il cognato Luigi che è rimasto a casa vi possa soccorrere. Speriamo che questa lontananza finisca e ci si possa ritrovare insieme. Baci a tutti voi, vostro figlio Cosimo’.

Testo di una lettera trasmessa ai propri genitori dal soldato Cosimo De Santis dal Campo di prigionia tedesco, Lager – Bezeichnung M. – Stammlager. Meckl. – C1546 (Deutschland), datata 16 gennaio 1945.

De Santis nacque a Tuglie (Lecce) nel 1924 da Rocco e da Scarpa Maria. Contadino come i suoi genitori, frequentò la scuola fino alla terza elementare. Di salute cagionevole affrontò ugualmente il lavoro nei campi – con i farmaci in tasca – per sostenere la famiglia, finché non fu curato dal professore Mosco.  Nel 1943 all’età di diciannove anni venne chiamato alle armi e assegnato al 5° RGT Artiglieria a Riva del Garda.

Il 9 settembre del 1943, il giorno dopo di quel fatidico 8 settembre, in cui venne annunciata pubblicamente la resa incondizionata dell’Italia agli alleati, Cosimo fu catturato insieme ad altri commilitoni a Riva del Garda da reparti tedeschi e tratto in un campo di prigionia della Germania.

Dopo l’8 settembre, con l’esercito italiano allo sbando, le armate tedesche della Wehrmacht e delle SS presenti in tutta la penisola occuparono tutti i centri nevralgici dell’Italia settentrionale e centrale, fino a Roma. La maggior parte delle truppe fu fatta prigioniera e mandata nei campi di internamento in Germania.

All’alba del 9 settembre, Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio, capo del governo, e con loro gli alti comandi militari fuggirono da Roma per raggiungere Brindisi, abbandonando l’Italia all’occupazione tedesca. Iniziò la resistenza dei partigiani contro i nazisti e i fascisti. L’Italia visse l’epilogo di una dittatura che sino alla fine procurò alla popolazione dolore, guerra, miseria e morte. Alla caduta di Mussolini, la Germania di Hitler si pose l’obiettivo di catturare la maggior quantità possibile delle forze armate italiane per evitare che passassero dalla parte degli angloamericani o nelle formazioni partigiane. I nostri soldati si trovarono ad affrontare l’esercito tedesco senza precise disposizioni dai vertici militari italiani. Non solo. Quando i tedeschi cominciarono ad accerchiare le nostre truppe, il comando supremo diramò per radio il dispaccio n. 24202 con cui si invitarono le forze armate italiane di non assumere atti ostili contro l’esercito tedesco. Solo l’11 settembre 1943, lo Stato Maggiore italiano diramò l’ordine di considerare nemiche le truppe tedesche. Le truppe italiane disarmate dai tedeschi furono caricate in vagoni da trasporto merci ed animali e tradotte, in condizioni disumane, nei lager nazisti. In pochi giorni circa 700.000 soldati italiani furono catturati e dirottati in Germania.

I nazisti per continuare la guerra ebbero necessità di manodopera, alla quale fecero fronte con l’impiego dei prigionieri provenienti dai diversi paesi europei. Erano quattro le tipologie di lager: i DULAG, campi di transito e di smistamento; gli STAMMLAGER, per sottufficiali e truppa; gli OFLAGER, per ufficiali; gli STRAFLAGER, di punizione alle dipendenze delle SS. Il campo di prigionia di Neunbrandenburg di De Santis fu lo Stammlager, posizionato fuori la città, nella parte sud-orientale del Land, sulle rive del lago Tollensesee. I deportati sopportarono la fame, il freddo, l’isolamento e la lontananza dai familiari, oltre ai pidocchi, alle pulci e ai cimici.  Nel 1945, pochi giorni dopo la fine del conflitto, quasi tutta la parte della città vecchia fu bruciata dall’Armata Rossa.

De Santis rientrò in Italia nel 1946 e fu posto in congedo illimitato ed iscritto nel ruolo della forza in congedo di Artiglieria del Distretto Militare di Lecce. Da uomo finalmente libero sentì il bisogno di trascrivere su alcuni fogli gli aspetti più importanti della sua vita. Quei fogli raccolti dal figlio Rocco sono stati pubblicati in suo ricordo nel libro Appunti per un diario (Tipografia 5 emme, 2014). Nell’immagine che segue il taccuino dove De Santis trascrisse i suoi ricordi. Nei lager non fu mai consentito ai prigionieri di tenere un diario.  Qualcuno, al rientro in Patria, come il nostro De Santis, incominciò a scrivere il diario dei giorni di prigionia; per molti altri deportati la tragicità della prigionia segnò in modo così indelebile la loro vita che non ebbero la forza di scrivere e di ricordare.

Dalla lettura del diario emerge la tenacia di De Santis nell’affrontare le avversità della vita con animo propenso all’amore e al rispetto dei propri figli e degli altri. Racconta la sua prigionia senza odio, con pacatezza d’animo, nonostante la violenza subita. Nell’esecuzione dei lavori da parte dei prigionieri i tedeschi furono molto severi, torturarono nella  camera di punizione tutti coloro che non erano efficienti.  Molti compagni di De Santis si ammalarono di tubercolosi e lasciati morire senza cure. La tragedia della deportazione è da lui sintetizzata: La fame e le botte erano il nostro rosario. Le indescrivibili esperienze dei deportati non possono essere umanamente comprese poiché sfuggono a qualsivoglia teoria traumatica, sono così forti e intrise di crudeltà che non è sempre agevole per chi le racconta. Quando, nel 1945, furono liberati si disse che era finito un incubo, invero per loro iniziò l’incubo reale del ricordo di un periodo vissuto in modo inumano. La loro vita cambiò radicalmente: il filo spinato dei recinti li attorcigliò per sempre nei pensieri.

Nel 4° foglio del suo Diario scrive: La guardia nell’accompagnarmi al lavoro, camminando sulla neve, mi spingeva a calci e a colpi di fucile. Giunto sul lavoro le mie condizioni di salute non mi consentivano di lavorare, per cui cercai di nascondermi, ma i nazisti mi beccarono e mi diedero un sacco di botte. Il 16 agosto un bombardamento distrusse la fabbrica, ed io insieme a 300 altri prigionieri ci trovammo sepolti sotto le macerie. I tedeschi ci liberarono dopo due giorni.

Cosimo e gli altri prigionieri seppur deboli nel corpo per la fatica e le torture subite, si dimostrarono duri come rocce, tentarono di resistere alla malvagità dei nazisti. Sempre orgogliosi di essere italiani e devoti alla patria. De Santis un giorno nel tentativo di pretendere rispetto per la propria nazionalità da un soldato tedesco, fu picchiato a sangue nella maledetta camera di punizione: fu legato nudo su un tavolo e frustato a sangue (Foglio 5 del Diario). Per le torture subite De Santis incominciò a sputare sangue, per cui vedendosi ‘schifato’ dai suoi compagni di prigionia, si decise di sottoporsi a visita medica per essere curato (Foglio 8 del Diario).

La deportazione di De Santis è una storia che si colloca nel contesto storico generale della Seconda Guerra mondiale, in cui la popolazione pagò un tributo molto alto di sangue e di dolore. In particolare, negli ex internati emerse sin dalla fine del conflitto mondiale un sentimento comune: la tristezza di essere stati abbandonati al loro destino durante i terribili mesi di prigionia nel più completo isolamento. Le loro storie potrebbero apparire tutte uguali, in realtà sono diverse, ognuna è una storia nella storia. La deportazione non mostra la generica ‘follia di Hitler’ quanto la totale negazione della dignità umana, spogliata, squartata come carne di macello, consegnata agli aguzzini. Il momento della liberazione non fu lieto, emerse in molti di loro un senso di indegnità per essere rimasto vivo al posto di un altro, quasi a dover giustificare la propria fortuna e la propria esistenza, come se il significato della propria vita coinvolgesse il significato di morte degli altri. Si sentirono diversi e per timore di non essere creduti decisero di tacere.

La stessa sorte la subirono le donne impegnate nella Resistenza. Dopo la fine della guerra, c’è stato un silenzio generale sulla loro attività contro il nazifascismo. Rischiarono la vita, subirono torture e violenze sessuali, non erano armate e quindi non si potevano difendere. Non sarebbe stata possibile la Resistenza, secondo una stima furono oltre 70.000. Secondo la storica Simona Lunadei, solo poche donne dopo la guerra chiesero di essere riconosciute come partigiane, infatti questo ‘titolo’ veniva attribuito solo alle donne che avevano partecipato alla lotta armate. Scrive Lunadei: ‘Se una donna faceva la staffetta difficilmente poteva documentare la sua attività partigiana, questo ha significato che pochissime sono state riconosciute come partigiane e sono entrate nel Pantheon della resistenza’. Da ciò si comprende come la Storia privilegia i Grandi e le azioni di grande rilievo, tutte le altre storie che possiamo definire ‘minime’ invece vengono tralasciate, abbandonate a sé stesse. Solo a partire dagli anni Novanta le donne protagoniste della resistenza italiana incominciano a parlarne pubblicamente e, anche grazie al lavoro di molti storici, a essere intervistate e a scrivere dei libri e delle memorie. Si comprende allora come sia necessario ancora oggi fare un lavoro di scavo nella storia della Seconda guerra mondiale pe riportare alla luce tutto ciò che è ancora taciuto.

La conoscenza dei nomi di tutti i partigiani e prigionieri pugliesi nei campi di concentramento la si deve al lavoro di recupero dei dati da parte di Pati Luceri, dove la testimonianza è data dal libro Partigiani e deportati deceduti. Tuglie conta 82 deportati nei campi di concentramento: l’auspicio è che la comunità tugliese congiuntamente con le istituzioni non dimentichi questi nostri compaesani, realizzando una stele in cui siano incisi i loro nomi. Nella provincia di Lecce i deportati furono 7210, i partigiani 1200. Per questa infausta causa il nostro territorio ha fornito braccia per la guerra.

All’età di 54 anni Cosimo De Santis si ammalò. Fu ricoverato molte volte in ospedale, trascorrendo le giornate in silenzio. Comprese che la sua malattia non gli avrebbe consentito di vivere a lungo. Cercò un block notes per stendere con la sua minuta calligrafia di contadino, tutto ciò che riuscì a ricordare. Dialetto e italiano si mescolarono nella stesura, ma i suoi famigliari un giorno avrebbero compreso abbastanza. Nel dolore della sua malattia non manifestò mai le debolezze del corpo pur nella consapevolezza della morte. Morì il 4 luglio 1980 all’età di 56 anni. Il figlio Rocco così lo ha ricordato sulla quarta di copertina del libro: Questa è stata, a larghi tratti, la vita di mio padre che, nonostante tutte le avversità incontrate e superate, ha amato la vita fino all’ultimo atto, perché era l’unico modo che gli permetteva di amare ancora coloro che lo amavano.  

Può la nostra società dimenticarli? Far finta che non sia successo nulla e limitare alla mera ricorrenza di una data la loro memoria? Gli storici di essi non si sono occupati abbastanza: alla loro liberazione furono accolti con indifferenza e diffidenza, ed essi reagirono con il silenzio nel tentativo di rimuovere dal corpo e dalla mente una ferita molto profonda. Eppure, anch’essi contribuirono ad una resistenza attiva senza armi, sopravvivendo alle fatiche dei lager e alle violenze dei nazisti. La Resistenza nel primo dopoguerra è stata sempre esaltata, forse anche in maniera strumentale, in cui i meriti sono stati attribuiti ai partigiani e agli alleati. Questi uomini dimenticati dalla storia soffrirono il freddo nelle gelide baracche, la fame e furono trattati come bestie, Trascorsero i mesi duri della prigionia senza ricevere conforto e notizie dei propri familiari. Qualcuno impazzì, molti si ammalarono e morirono nei lager.

Gli ex internati rappresentano anche oggi l’incomoda ombra del passato regime fascista, giacché i prigionieri di guerra erano i resti di quell’esercito, prima protagonista e poi vittima della guerra fascista. Di loro non si parla in modo adeguato. Dimenticati due volte. Dopo l’8 settembre l’Italia fu tradita, occupata da due eserciti quello tedesco e quello degli Alleati, di fronte ai quali il nostro esercito si sfaldò, mentre i capi e il re fuggirono lasciando la nazione abbandonata a sé stessa. La storia va riscritta nella considerazione di una cultura dell’Occidente in cui prevalga la consapevolezza dei fatti storici, affinché la legge regolatrice del rapporto persona e società, nonché della memoria storica, sia sempre attiva nell’ambito della ‘giustizia storica’.

Gli italiani devono la loro libertà anche a questi uomini che pagarono un prezzo molto alto per una colpa inesistente. Il dovere è di adoperarci a sostenerli nella memoria, sensibilizzando le nuove generazioni a quel sacrificio di sangue e di tortura cui furono sottoposti ingiustamente. Come dell’immediato dopoguerra, così anche oggi c’è un Paese da ricostruire nella memoria, rovinato non dalle bombe ma dalle omissioni. Per non perdersi per strada la comunità deve celebrare ogni giorno il diritto alla conoscenza storica, magari tentando di eliminare il vizio italico di ricorrere alle scorciatoie, agli accomodamenti e all’ambiguità.

 

 

 

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