La mitezza si contrappone alla protervia e alla prepotenza. Deriva dal latino mitis, che significa maturo, tenero o dolce. Nella simbologia è associata all’agnello, identificato come vittima predestinata e opposto al lupo.
Il mite non gareggia, non ha tentazioni di rivalsa, non ha sentimenti d’invidia, non persegue vittorie esistenziali. Tuttavia, la mitezza non è remissività. Il remissivo rinuncia alla lotta e al perseguimento di obiettivi. Il mite rifiuta la cupidigia e la vanagloria. Non serba rancore, non è vendicativo. Nelle tempeste della vita si muove con cautela e moderazione, preservando la propria compostezza con autocontrollo.
La mitezza è una condizione interiore di porsi nel migliore dei modi nei confronti degli altri. Ê un certo modo di vivere che si acquisisce per testimonianza e sensibilità ed è la cosa più umana che ci sia. La sensibilità riconosce il male, la freddezza, la guerra, e antepone l’umanità.
Il mite, da un punto di vista evangelico, è colui che ha in dono lo spirito di giustizia e non si ribella al Signore ma si mette nelle sue mani. Se è, dunque, giusto non è indifferente al male né alle tante iniquità del mondo, reagisce con coraggio alle sopraffazioni in modo non violento, potendo colpire non colpisce ma cerca soluzioni umane per amore del prossimo, riconosce e consiglia con saggezza, non si fa giustizia da solo.
È una virtù, per cui secondo il pensiero aristotelico altro non è che il punto di equilibrio tra due opposti errori, l’uno dei quali pecca per difetto e l’altro per eccesso, ossia il giusto mezzo, che indica ad evitare gli estremi in eccesso e in difetto perché dannosi. Un equilibrio tra gli estremi comporta una vita virtuosa e appagante in relazione alle azioni quotidiane. Ad esempio, un eccesso di severità può portare al rigore e alla crudeltà, mentre un eccesso di indulgenza può condurre all’assenza di disciplina e di moralità. Un eccesso di amicizia porta al servilismo e alla mancanza di uno scarso interesse per gli altri.
Il filosofo Pier Aldo Rovatti dà una decisa valorizzazione della mitezza: «La filosofia deve imparare dalla poesia a esercitare l’arte della mitezza, provarsi per quanto le è possibile a circondare con dolcezza le ‘cose’ cui vuole tornare, quel luogo dove ‘già siamo’» (Esercizio 34-35), in senso concreto il dove ‘già siamo’ altro non è che lo spazio materiale in cui ci troviamo nel mondo, nella nostra vita quotidiana. Dall’assunto di Rovatti si comprende che ‘a circondare con dolcezza le cose’ si configura come un modo di vedere le cose senza la pretesa di coglierle e appropriarsene. Lo sguardo è salvaguardia dello stato della cose, del loro modo di esistere e di stare insieme ad altre cose. Lo sguardo, idealizzato nella mitezza, partecipa con amore alle cose che vede. Non è un’adesione alle circostanze di fatto, agli schematismi esteriori delle cose poste nel mondo, ma un atteggiamento di amore a tutte le manifestazioni del reale nella completezza del raffigurato senza togliere o aggiungere dettagli. Una predisposizione allo sguardo intensivo e riflessivo che non impone valutazioni generiche o discernimenti pregiudizievoli, ma un modo di vedere le cose per quello che realmente sono, con la premura di non deturpare ciò che effettivamente è.
Allo sguardo Rovatti aggiunge il gesto che in particolare la poesia esplicita, nel senso che esso si prende cura delle cose del mondo, salvaguardandole dalle contaminazioni o dalle offese che potrebbero subire. Un atto d’amore verso le cose del mondo, che non dovrebbero essere esposte al consumo rapido al pari delle merci per un appagamento momentaneo degli sfrenati desideri degli umani.
Norberto Bobbio e la mitezza, la più impolitica delle virtù
La mitezza, scrive Bobbio, «non è una virtù politica, anzi è la più impolitica». La politica la ignora.
Tuttavia, contrariamente all’affermazione del filosofo, la mitezza da sola non basterebbe per una società equa e giusta: lo dimostrano i fatti in cui la violenza prevale su ogni principio e morale. La soluzione possibile? La vergogna potrebbe essere l’antidoto alla violenza, ma anche la presa di coscienza di tutti. Il mondo però si muove – come il susseguirsi degli eventi giornalieri lo dimostra – nella direzione del male e della violenza. Appare, quindi, utopistico, o quanto meno una strada impraticabile quella della mitezza (grande virtù che nessuno vuole far sua). I proclami, le dichiarazioni, i trattati di pace, seguono la direzione normativa che elude in ogni modo l’aspetto psicologico degli uomini per una formazione caratteriale di base che si prodighi per la costruzione di una coscienza, considerato che la coscienza esiste come termine letterale ma non come consapevolezza di sé, indispensabile per scoprire – intanto, come siamo e chi siamo – e di conseguenza raddrizzare le storture interne alla psiche. Il mondo non è una macchina ma una rete grande di relazioni e in esse si avviluppano contraddizioni, egoismi e rivalse. È stato costruito su una società che pensa a fare soldi che al vero benessere, distruggendo ogni proposito di giustizia e di mitezza. Non vi è un orizzonte di mondo in cui si possano intravedere le grandiosità del bene, l’educazione ricevuta da tutti è di preferire voglie piccole, facili da soddisfare, rispetto a quelle grandiose. Manca il desiderio di rivolta, di cambiamento, di un possibile progresso di bene della coscienza, ogni azione individuale e collettiva è indirizzata verso il consumismo – dimensione reale del mondo che è soltanto commerciale. Tutto diventa meschino e i buoni desideri soffocati.
Johm Rawls e l’utopia realistica di una società giusta
Rawls per tutta la sua vita ha lavorato intorno alla questione essenziale su quali siano le condizioni che rendono una vita umana degna di essere vissuta. Egli intravede un modo nuovo di fare politica attraverso la sua visione del ruolo della filosofia politica per la società. Intanto, nelle sue Lezioni di storia della filosofia politica precisa che il filosofo non è un tecnico, come può esserlo un fisico o un economista, il filosofo pone questioni che possono aiutare tutti i cittadini a guardare con uno sguardo limpido alle istituzioni che li governano e a giudicare meglio e con cognizione le politiche che queste decidono di implementare. Il filosofo non è per Rawls il sapiente platonico, ma colui che deve indirizzare lo sguardo dei cittadini verso le questioni importanti che riguardano la vita in comune con gli altri cittadini e le istituzioni, affinché si produca una visione chiara è oggettiva capace di formulare dei giudizi sui diritti e sulle libertà fondamentali, ma soprattutto sul senso del rispetto e della presa di coscienza di essere davvero cittadini che lavorano ogni giorno non per il proprio benessere ma per quello di tutti in una sintonia di intenti prossimi sempre all’equità e al rispetto della vita umana. I cittadini dovrebbero affezionarsi agli ideali democratici e alle forme di politiche sostenibili per disintegrare le divisioni di classe, religiose ed etniche. Devono, altresì, contribuire a rafforzare le loro istituzioni politiche di base. La filosofia politica non può essere intesa come un sapere specialistico ed esclusivo per pochi, quanto, piuttosto il mezzo su cui costruire quella cultura di sfondo ampia e generale capace di fondare e trasmettere i principi e gli ideali politici essenziali – e mai inderogabili – di una comunità. Bisogna sempre ricercare ciò che unisce, sfruttando anche le differenze per elaborare progetti di pensiero politico che possano garantire una stabilità di coscienza politica e sociale, nonché porre un freno alle emotività sociali devianti. Le storie individuali vanno armonizzate in un disegno realizzabile di costituzionalità in cui il diritto antepone l’uomo allo Stato e ne preserva la propria storia e le sue tradizioni in una linea di condotta sempre condivisibile da tutta la comunità in uno spirito idealistico di protezione della storia degli uomini. Rawls ritiene che la rassegnazione induce a non scoprire il nostro mondo, e in particolare il rapporto esistente tra il mondo sociale e le sue istituzioni. Il filosofo statunitense continuerà a credere nella possibilità di una utopia realistica, nel senso che la giustizia può trovare compimento perché essa è una virtù umana e rappresenta, un ideale alla portata di tutti, a condizione che vi sia l’intenzionalità di provare amore per il mondo di cui gli uomini sono attori determinanti di una società che si forma sulle basi di una convenienza reciproca e giusta.
La mitezza da sola non è sufficiente a tenere salda la società e le istituzioni. Ê necessaria? Sì certo, ma non è una forma unica costruttiva di un bene sociale, stante le innumerevoli contraddizioni, interessi, esigenze che animano il mondo.
Il mondo è imperfetto, multiforme, ambiguo, difficilmente definibile in tutte le sue propagazioni individuali e collettive. È governato dalla politica ed essa non si pone sempre nella giusta misura di fare il bene. La politica affronta le questioni del ‘mondo’ in maniera approssimativa e in adesione a propri interessi di egemonia. Il mondo migliore è soltanto un’utopia, un modo per illudersi, per non cercare soluzioni, e piace crogiolarsi in un ingannevole ‘va tutto bene’.
18/11/2024
Riferimenti bibliografici
- Bobbio N., Elogio della mitezza e altri scritti morali, Il Saggiatore, 2014.
- Bobbio N., Elementi di politica. Antologia, Einaudi, 2014.
- Menzio P. Pietas, mitezza, felicità dello sguardo. Per un’etica debole della letteratura, Enthymema, XIII 2015, pp.138-139
- Rawls J., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 2017.
- Rovatti P.A., Abitare la distanza. Per una pratica della filosofia, Raffaello Cortina, 2010.