Il canto composto nella villa Ferrigni a Torre del Greco, nel 1836 e pubblicato per la prima volta nei Canti a cura di Antonio Ranieri in Firenze nel 1845. È l’ultima opera di Leopardi, in cui non parla di sé stesso. Il suo approccio , o meglio, la sua vocazione a identificarsi con la natura è il suo modo di funzionare prima ancora del registro poetico, ed in questo modo egli è universale, al di fuori di ogni contaminazione e contatto storico con la vita. «Un uomo di cui i biografi attestano che non visse mai, che non conobbe mai la vita, e quando si legge qualcosa di lui sembra di vivere per la prima volta, o addirittura scoprire di vivere[1]».

Si tratta di una canzone libera di sette strofe di endecasillabi e settenari, dove ogni strofa viene chiusa da un endecasillabo, con qualche rima nel mezzo e in fine di verso.

Sotto il titolo il poeta riporta una citazione evangelica:

« Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς.

E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce »

(Giovanni, III, 19)

[1] Giacomo Leopardi, Canti, (a c. di N. Gallo e C. Garboli), Einaudi, Torino 2008, p. 273

 

 

 

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