Le bestemmie sono come le foglie, chi le semina poi le raccoglie. Le bestemmie si spandono in aria e per terra come foglie, poi però qualcuno le dovrà raccogliere, e, in senso metaforico, dovrà subire la pena del riscatto. Si ritiene che il proverbio si possa ascrivere alla tradizione orale dialettale tugliese: questa, infatti, è l’opinione di Antonio Stefanelli, memoria storica dei proverbi tugliesi, ricevuta a sua volta dai suoi genitori.
Nessuna bestemmia va in cielo.
Le parolacce, nello specifico le bestemmie, appartengono al linguaggio blasfemo non solo dialettale: il GRADIT (Grande Dizionario italiano dell’uso) attesta che le parole volgari tra il 1900 e il 2004 sono circa il 60% del totale, contro il 40% dei secoli precedenti. I social rappresentano il luogo preferito e più usato in cui dare sfogo alla violenza verbale. In ambito etimologico la parola bestemmia deriva dal greco antico “blasphēmía”, a sua volta composto da “blaptein”, che significa “danneggiare “, e “phēmē , “reputazione, fama”. Letteralmente, quindi, blasfemia significa “danneggiare la reputazione” (di una divinità o di ciò che è considerato sacro). Nell’uso della lingua poi è prevalso il termine bestemmia, derivante, secondo il linguista Pietro Trifone (cfr Brutte sporche e cattive. Le parolacce nella lingua italiana, Carocci, 2022), dall’accostamento con bestia, nel senso che degrada l’uomo a livello della bestia.
Trifone osserva che il dilagante laicismo ha fatto perdere il gusto di bestemmiare. Invero, la diffusa crisi della religiosità ha come conseguenza nel parlato di una riduzione dell’abitudine di bestemmiare: il non considerare la divinità ha reso la bestemmia priva di quel valore assoluto di imprecazione e di insulto che non produce nessun appagamento nei confronti di colui che bestemmia.
Il termine dialettale castimare si riconduce etimologicamente al latino volgare.
La bestemmia ha un impatto emotivo molto forte e tocca ogni strato sociale, causando indignazione e scalpore. A volte, per stemperare la carica offensiva, diventa un eufemismo del tipo maremma puttana, porco ziu, etc. Nell’interpretare la cattiva abitudine di bestemmiare certamente prevarrebbe lo sfogo emotivo, la rabbia, la ribellione, l’odio. Il forte divieto e la configurazione di peccato grave, paradossalmente, ne esplicitano l’uso e la frequenza nel parlato e in tutte le situazioni in cui è determinate per il parlante sfolgorare il proprio disagio e malessere. Ad oggi, gli studi sul fenomeno sono pochi e piuttosto datati.
Nel dialetto salentino, nel passato, la bestemmia era predominante nel parlato, accompagnata da atteggiamenti stizzosi e carichi di livore. Si bestemmiava con molta facilità, come a voler tinteggiare con sfumature di nero un linguaggio forte e molto intenso di un’interiorità, oltrepassando ogni limite di decenza e buona educazione. Si deve, tuttavia, annotare che veniva proferita anche per abitudine e per mostrarsi capaci di essere forti e invulnerabili. Oggigiorno va scomparendo; le nuove generazioni si affidano a linguaggi in aderenza la modo di stare nei social, per cui prevalgono forme linguistiche di imprecazione anche simpatiche, meno forti, che attecchiscono in maniera diversa.
20/08/2024