I leccesi per rimarcare la propria leccesità, una sorta di astratta e fantomatica aristocrazia, così apostrofano i cittadini della provincia. Nel passato era molto più in uso rispetto ad oggi. Tuttavia, non mancano le occasioni in cui prevale l’istinto leccese di sopraelevarsi in meriti e appartenenza. La gente te paise è semplice, buona, senza grilli per la testa, non blasonata. Gente antica di fatica e di sudore, di religione e magia. Gente di terra e di mare, con il sole in tasca e la luna negli occhi. Gente che non segna confini, ma disegna orizzonti.
Scriveva Carlo Menotti (Lecce, 1893-1977), autore di canzoni, poesie e commedie in vernacolo leccese: «Simu lececsi core presciatu», per sottolineare la leccesità, cantata poi da Bruno Petrachi con Arcu te pratu in tutte le piazze del Salento, compresa la grandiosa piazza di Sant’Oronzo, un tempo centro commerciale del vino e dell’olio.
Gente te paise perché i provinciali non riescono a rapportarsi al meglio con i leccesi. Stannu sulu allu paise, come dire: non conoscono il mondo, sempliciotti, affetti da provincialismo cronico.
Non ci si può meravigliare allorquando in dialetto viene proferita la domanda «Ma tie te ddru sinti?» La risposta spesso è «Jeu suntu te Lecce?». Ma «Lecce, Lecce?» Ecco, qui in questo simpatico teatrino verbale e ambiguo sta la spiegazione di gente te paise.
16/06/2023