Io vedo il Salento, ma non la salentinità. E se la vedo, è solo nel cuore e nelle cure dei Salentini autentici*.
I poeti con il loro lavoro di testimonianza e di oggettivazione della realtà veicolano anche una determinata verità storica, dalla quale si può attuare un processo di revisione e di rielaborazione del passato. Ogni testimonianza letteraria presuppone un’operazione di ricostruzione storiografica che viene colta, letta ed interpretata, nell’ambito di un sistema complesso di informazioni per essere poi riproposta nel presente come verità storica.
In verità, per quanto concerne i poeti del Salento vi è un disordine letterario di informazioni, studi, saggi che disorientano e creano un’unicità complessa e indefinibile, al punto che districarsi nelle letture e nello studio delle testimonianze si rischia di perdere un filo, quel filo che dovrebbe invece distendere e non aggrovigliare, semplificare e aggiornare il presente con i dati del passato, affinché sia rilevabile ogni aspetto socio-culturale che ha contraddistinto un’epoca.
La produzione bibliografica sui più importanti poeti del Salento è immensa. Alcuni autori di saggistica e di monografie hanno interpretato la poesia salentina del Novecento secondo schemi e pregiudizi individuali che non tengono conto di tutte le varianti del contesto sociale. Uno studio più attento delle opere e dei poeti salentini darebbe il giusto riconoscimento del loro valore.
Vi è l’incombenza, quindi, di delineare e individuare ciò che del passato culturale del Salento è degno di valorizzazione e di divulgazione in aderenza all’idea di una comunità del proprio modus vivendi in una zona geografica, sì bella e rigogliosa, ma che ha sempre preteso sudore e fatica, dove una parte aristocratica e nobiliare ha governato e amministrato cose materiali (e immateriali). Il Salento nel passato ha fatto ricorso e si è assoggettato alla superstizione: una sorta di religione nella religione, con riti e usi celebrativi inventati e accettati per scongiurare la cattiva sorte.
Oggi il Salento ha a che fare con altre minacce: turismo compulsivo, desertificazione del territorio, inquinamento, nuove povertà. Il paradiso appare inferno con fiamme che disorientano e bruciano le pluralità di memorie di un popolo. Non è più il luogo incontaminato, puro e semplicemente a portata di uomo che ha meravigliato i poeti del passato. Non ci sono più i poeti costruttori d’inferno per ammonirci dei pericoli della dissolutezza e dell’effimero, né i poeti costruttori di paradisi per illuderci di un luogo fatto di parole buone e giuste. In ogni poeta c’è un dio che li agita e li sconquassa: una buona ragione per leggerli. In questo senso, la poesia può aiutare a comprendere meglio ciò che si è stati e ciò che si è adesso, cosa si può fare, quale modello seguire per un futuro in linea con i valori e principi di rispetto dell’ambiente e dell’uomo.
Chi sono i nostri poeti?
Studiando i poeti del Salento si approfondiscono le origini, il pensiero, le drammaticità delle condizioni degli abitanti in un tempo remoto, le fantasie della gente, le capacità di adattamento ad una terra generosa ma anche ostile, i paesi, le chiese, il barocco, le superstizioni, le paure, la morte, le lamentazioni, gli inferni e i paradisi, le superstizioni, la magia, gli ulivi, la vigna, il sole, la luna, il mare, i porti, la campagna.
Vittorio Bodini e Carmelo Bene hanno trattato più volte nelle loro opere il tema della propria terra, ponendosi alla ricerca della sua identità mediante l’individuazione di alcuni costante storiche, letterarie e antropologiche che hanno connotato il Salento nei secoli passati. C’è anche un luogo che unisce le due personalità: Vitigliano- Santa Cesarea Terme.
Un altro punto di convergenza: San Giuseppe da Copertino. Entrambi erano affascinati da questo santo diverso da tutti gli altri, in lui essi rispecchiavano certi aspetti della loro personalità, come la ribellione e la diversità. Erano attratti dal suo carattere turbolento e di contro dalla sua capacità di abbandonarsi alle sue estasi. Bodini condensò tale aspetto in un solo verso: «Un monaco rissoso vola tra gli alberi» (Foglie di Tabacco). Mentre, Bene dedicò al santo copertinese l’opera A boccaperta (sceneggiatura cinematografica pubblicata nel 1976), con l’intenzione poi di realizzare un film, ma senza successo. Il titolo fa riferimento al soprannome ingiurioso (ucca perta) con cui il santo era chiamato nella sua città natale per la sua tendenza ad astrarsi dalla realtà quotidiana. Bene comunque ne aveva già parlato nel romanzo Nostra Signora dei Turchi (1966), in cui raffigura San Giuseppe da Copertino (Frate Asino per la sua incapacità di svolgere un ragionamento coerente) inetto, maldestro, incapace di tenere in mano oggetti e cose che cadono a terra e si rompono (mani di burro), perseguitato per tutta la vita dai dolori fisici. Persino le levitazioni erano causa di problemi per lui, infatti spesso bambini, storpi, barboni si aggrappavano alla sua tunica e poi cadevano a terra, a volte morendo. Ma il santo vergognandosi si copriva il volto col cappuccio e compiva il miracolo di riportarli in vita.
Un brano di Nostra Signora dei turchi risulta particolarmente esplicativo della vita di Giuseppe: «Giuseppe da Copertino è personaggio controverso, la Chiesa aspetterà duecento anni prima di farlo santo. […] Sempre circondato da poveri. Chi orbo, chi storpio, chi deforme. Si aggrappano alla sua tonaca e lui se li porta in alto, salvo poi lasciarli sfracellare al suolo quando la presa dei malcapitati manca. […] Si risvegliava, frate Asino, quasi sempre in cima al cornicione della chiesa o sopra un ramo d’ulivo, in posizioni molto precarie. […] Analfabeta totale, parlava da ignorante ma, nella sua ignoranza, è degno di San Giovanni della Croce. Morì a Osimo. Disteso su un catafalco, appena coperto da un velo fu esposto ai fedeli. La ressa nella cattedrale era tanta e tale che scoppiò improvviso un grande incendio. Fu una carneficina, morti, ustionati. Il cadavere di frate Asino rimase intatto. Gli fu asportato il cuore e tagliato un dito. Fanatismo devozionale d’un conterraneo. Si possono ammirare queste reliquie nella bacheca sacra della grottella a Copertino».
Ai due poeti non sfuggì l’assedio di Otranto del 1480 da parte dei turchi. Evento emblematico della storia della storia e della religiosità del Sud. Bodini ne parlò in una prosa La Puglia contro Pietro Micca (pubblicata sul Tempo, Roma 1952, e successivamente inserita nel volume Barocco del Sud). Bene, invece, ne fece il punto di partenza di Nostra Signora dei Turchi.
Bene e Bodini sono l’espressione massima a livello artistico del Salento e dell’Italia. Come spesso però accade il poeta per un destino beffardo viene dimenticato dalla sua gente, quasi messo a tacere, forse perché non compreso, non riconosciuta la sua valenza artistica che ha talmente anticipato la modernità e i tempi. Eppure, Bene meriterebbe una nuova attenzione, non estemporanee celebrazioni della sua nascita o morte. La sua intensa produzione è articolata e va studiata, anche per colmare le inesattezze e le improprie etichette che gli vengono affibbiate. Egli era uno studioso di valore che attingeva sapere dalla ricca biblioteca di cui si era dotato. Studiarlo, anche, per comprendere la sua predisposizione a rifiutare la lingua usata quotidianamente che riteneva inadeguata a raggiungere un senso “diverso”.
Poeti che, come si è visto, intrecciano e rimodulano aspetti religiosi e sociali di una zona geografica ricca di storia, di spunti esistenziali e di una visione-interpretazione del Salento. Poeti che meritano la luce che è propria dell’arte. L’auspicio è che la citazione di Luigi Settembrini in Scritti vari (a c. di F. Fiorentino, Napoli, 1889, p. 298) sia definitivamente debellata, che qui si propone:
Da Quinto Ennio in poi il Salento è terra ricca di poeti, oltre ai due già citati. Una terra che ha dimostrato e continua a dimostrare una vitalità sorprendente in ambito letterario, accogliendo le correnti più innovative del XX secolo, dal futurismo all’ermetismo, dal neorealismo allo sperimentalismo, all’avanguardia.
Dalla fine dell’800 a tutto il ‘900, il fervore letterario è sancito dal proliferare di riviste e periodici letterari: Gazzettino Letterario (1878-1880, diretta da Luigi Tinelli, contraddistintasi per la presenza della letteratura francese); L’Albero (fondata nel 1949 da Girolamo Comi), considerata da Lucio Antonio Giannone la più importante rivista letteraria salentina (e forse meridionale) del secolo appena trascorso (L.A. Giannone, Modernità del Salento, Congedo Editore, Galatina 2009, p. 83); L’esperienza poetica (fondata da Vittorio Bodini nel 1954); Il Critone ( fondata nel 1956, mensile dell’Associazione di Diritto penale, di cui venivano stampate venti copie); Il campo (fondata nel 1955 fa Francesco Lala, insieme a Nicola Carducci e Giovanni Bernardini); Il caffè Greco e il Pensionante de’ Saraceni (entrambe fondate e dirette da Antonio Verri rispettivamente nel 1979 e nel 1989); La Zagaglia (fondata nel 1959, diretta da Mario Moscardino). «In particolare nel Salento (dove si facevano sentire gli effetti della ‘lunga durata’ di una plurisecolare gene razionalità di eruditi, filosofi, storici, biografi, bibliografi espressa a partire dall’opera corografica di Antonio De Ferrariis Galateo) si rinnovava, dopo il 1861, il proposito di esibire all’opinione pubblica nazionale vetustà e nobiltà di una terra tanto geograficamente periferica quanto culturalmente, artisticamente, civilmente vitale e propositiva. Donde il culto delle origini e delle radici, donde il proliferare di iniziative editoriali (es. la “Collana di scrittori salentini” di Salvatore Grande) e pubblicistiche, ivi compresa la gran messe di monografie e studi di patrie storie e memorie, nonché la fondazione di biblioteca e musei provinciali, auspice ed in faticato attore Sigismondo Castromediano» (Gino Pisanò, Da “Fede a “Vedetta”: cultura e ideologia nella stampa periodica salentina del ventennio fascista, in Idomeneo, Congedo editore 1998, p. 20).
La salentinità
Sumus Romani qui fuimus ante Rudini. Siamo Romani, noi che prima fummo Rudini.
In queste parole, il poeta Quinto Ennio (Rudiae, 16 luglio 239 a.C. – Roma, 8 ottobre 169 a.C.) dava tutto il senso del compimento di un percorso identitario che da Rudiae lo aveva portato a divenire cittadino romano.
[Rudiae è un’antica città messapica, nell’area di influenza della colonia dorica di Taranto, nota soprattutto per aver dato i natali allo scrittore latino Quinto Ennio. Viene oggi identificata con i resti archeologici situati nel comune di Lecce, lungo la strada per San Pietro in Lama. Dopo la sconfitta di Taranto e di Pirro negli anni 268 e 267, passa sotto il dominio di Roma].
Alla locuzione appena detta, spesso, si sono riportati i pensatori della nostra terra, prodottisi nello sforzo di ricongiungimento tra ciò che è un sentimento caldissimo e la sua dimensione ideale.
Il poeta viene rivendicato da una certa letteratura posta tra Ottocento e Novecento come uno degli elementi principali di un corollario di “cose” salentine. Ma in questa operazione quell’ante Rudini (fummo rudini), subisce una torsione interpretativa, e da un punto di partenza diviene punto fermo. Vale a dire, si fa prevalere ciò che fummo al posto di Sumus Romani (siamo romani). Mentre per Quinto Ennio vi era stata una feconda continuità tra l’esser stati rudini e il diventare romani, tra ciò che è passato e tra ciò che è presente.
Indubbiamente, ribadire fuimus rudini e non considerare il Sumus Romani implica il riconoscimento di un nucleo originario e puro, irrimediabilmente distinto e lontano dalla contemporaneità. Come se si volesse rifiutare il presente e glorificare il passato, le origini. Mi pare che questo concetto sia racchiuso nell’espressione Simu salentini pronunciata con enfasi e quasi con disprezzo nei confronti degli altri (di coloro che non sono salentini), quasi a riaffermare una condizione sociale e identitaria che supera in confronto tutte le altre. Insomma, l’espressione verbale Simu salentini implicitamente vuol dire siamo anche i migliori, siamo noi, non vogliamo confrontarci con nessuno.
C’è da chiedersi: ma qual è il nostro territorio. Il Salento prima cos’era?
Un tempo, dall’ XI secolo, il Salento faceva parte della parte integrante della Terra d’Otranto, che comprendeva le odierne province di Lecce, Taranto e Brindisi (con l’eccezione di Fasano e Cisternino) e il territorio di Matera fino al 1663, quando questa città fu dichiarata capoluogo di Basilicata con decreto di Filippo IV di Spagna.
Dopo l’Unità d’Italia (17 marzo 1861), la Terra d’Otranto cambiò nome in Provincia di Lecce, e il suo territorio fu diviso nei quattro circondari di Lecce, di Gallipoli, di Brindisi e di Taranto (R.D.L. 2 gennaio 1927, n. 1).
Il Salento o penisola salentina, da un punto di vista meramente geografico, è separata dal resto della Puglia da una linea ideale che dal punto più interno del Golfo di Taranto (nel territorio di Massafra) arriva fino all’Adriatico, in corrispondenza dei resti della città messapica di Egnazia (nel territorio di Fasano).
Il confine a sud del Salento è Leuca, mentre il confine a nord è dato dalla linea Palagiano-Alberobello-Locorotondo-Egnazia. Tutto ciò che sta sopra questa linea è fuori dal Salento, anche se è un errore socioculturale, oltreché antropologico pensare di volere tagliare col coltello un’area specifica. I confini sono mentali, quindi estensibili secondo le esigenze e le volontà della gente, degli intellettuali, dei poeti, degli scrittori.
Qual è dunque il senso da attribuire all’enfasi che da qualche tempo si va formando sulla presunta identità salentina?
Si ha l’impressione che la ricerca di un’identità salentina è consistita in un momento alienante dalla realtà socio-politica e in un rifugiarsi verso una dimensione del tutto distaccata dalla storia. Il tentativo intellettuale di fondare la salentinità molto spesso ha creato un concetto feticistico, in una direzione sbagliata e in una dimensione ideologica (quasi religiosa) che ha impedito di vivere il presente e di coglierne i significati estremi.
Il riferimento a Quinto Ennio torna, oggi, ancora utile. Si manifesta nuovamente quel rapporto ingarbugliato tra due dimensioni che occorre districare. È necessario collocare il presente nella più ampia logica globale di inclusione e non di esclusione delle tradizioni e dei valori senza rinchiudersi in un ruolo tendente al mero recupero sterile del passato. Ed ecco lo scavo dannoso e inutile nel mondo del tarantismo e nella sua sfera mistica. Quando Ernesto De Martino profetizzava la fine del tarantismo non si sbagliava, ma non poteva prevedere il suo risorgere attraverso un’operazione ideologica che lo rinnovasse, lo rendesse neo-tarantismo per attualizzarlo negativamente in una visione storica e antropologica che non gli appartiene, attribuendo tra l’altra al tarantismo una specificità tutta salentina, difatti la pizzica pizzica si ballava anche sul Gargano. Ne parla a proposito Michele Vocino nel suo saggio Lo sperone d’Italia (Editore Scotti, Roma 1914) in riferimento all’errata opinione che la pizzica si balli/ballasse solo nel Salento. La pizzica e il tarantismo si configurano perciò come caratterizzante, accomunante e fondante l’intera cultura e storia del popolo pugliese, non solo dell’area salentina come erroneamente si è portati a credere.
C’è confusione, scarsa conoscenza, insufficiente pratica di cultura del Salento. E’ interessante ricordare quanto scritto su Puglia: un popolo di uomini, (Laicata 1987) da Domenica Severino:
Il pensiero dei grandi meridionalisti non è entrato nella circolazione mentale della gente, non è divenuto “patrimonio comune di idee”. […] Compito essenziale degli uomini di cultura, a tutti i livelli, è quello di accostare il pensiero della gente, perché possa crescere civilmente. […] È auspicabile l’insegnamento fin dalla scuola di base di una materia che possa definirsi come educazione sociale al territorio. […] Chi oggi nelle scuole fa circolare in maniera profonda la voce dei grandi? Come può circolare se mancano gli operatori impegnati a farla divenire patrimonio comune?
Pasolini a bordo di una Fiat Millecento nel 1959 percorse la costa italiana per realizzare La lunga strada di sabbia, un ampio reportage sull’Italia tra cambiamento e tradizione. Del Salento così si espresse:
Volo per la costa meno nota d’Italia: mi trascina una gioia tale di vedere che quasi sono cieco. Qui infatti tutto minaccia di non essere: la costa piatta, i paesi arabo-normanni (arabi nella parte umile, normanni nella parte eletta, chiese e muraglie), il mare. Tutto è come bevuto, frastornato dalla luce. Riafferro la vita a Gallipoli. Misterioso centro, esistente, di una regione che non esiste. È del resto una città a sé, uno stato, un po’ come Cutro (Comune della Calabria). Perfetta anch’essa come Taranto, protesa, biancheggiante, in un mare squisito, puro selvaggio. In quello slanciato ammasso di case bianche, inallenato da lungomari e da moli, la gente vive una vita autonoma, quasi ricca, si direbbe, quasi non ci fosse soluzione di continuità con qualche periodo della storia antica, che io non so, né faccio in tempo a capir: il demone del viaggio mi sospinge giù, verso la punta estrema.
Ci si arriva lentamente, mentre intorno la regione si trasforma, si muove in piccole ondulazione, si ricopre di ulivi. Santa Maria di Leuca si stende lungo il mare con una fila di villini liberty, lussuosi, rosei e bianchi, incrostati di ornamenti, circondati da giardinetti: sembrano appena abbandonati.
Il passato incide notevolmente sulla salentinità, forgiata sull’uomo salentino e sul luogo, pertanto, le devianze e/o sovrapposizioni pseudoculturali e antropologiche ne inficerebbero l’essenza e la forma.
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- M. Marti, Alla ricerca della salentinità, Apulia, IV, dicembre 2004.
29/11/2024