A 31 anni, dopo averlo a lungo progettato, Dagerman si uccise con il gas di scarico dell’auto. Era l’anno 1954 e nove anni prima aveva debuttato con il romanzo Il serpente con cui si guadagnò la fama di nuovo talento della letteratura svedese raccontando la paura della paura.

Il serpente viene tradotto in lingua italiana da Fulvio Ferrari. Il romanzo contiene già in nuce i temi ricorrenti di Dagerman: le idee libertarie e il loro declino, il militarismo, il ‘cerchio di ferro’ che costringe l’uomo a una costante e dolorosa pressione, esercitata dall’angoscia esistenziale o dall’apparato statale con le sue norme e le sue colpevoli cecità, la ricerca di un intimo senso della vita.

Stig Dagerman era figlio di un operaio e di una centralinista che dopo il parto abbandonò il figlio. Successivamente si riunì con il padre a Stoccolma. Il padre era un proletario di idee anarchiche e Stig cresce in un ambiente profuso di socialismo libertario. Erano gli anni ’30 in cui soffiava il vento del nazismo e i seguaci di Hitler erano molti. La politica ufficiale di Stoccolma nei primi anni di guerra era ambigua, con qualche concessione a Berlino. Nel 1943 Stig sposò la figlia di un profugo anarchico tedesco. Il romanzo Il serpente viene composto in quegli anni di terrore, di incertezza, di autoritarismi e soprattutto di sopraffazione della dignità umana in funzione delle esigenze nazionalistiche germaniche e in aderenza al progetto hitleriano di una società ordinata e compiuta nel verbo del nazismo. Lo Stato è definito da Dagerman ‘elargitore di sicurezza’  visto come ‘persona’ e aggressore della libertà dei cittadini, al punto che lo immagina come il ‘Signor Stato’.

Dagerman come anarchico si sentiva isolato, non aveva una visione dogmatica, era contro il cinismo della stampa operaia che non era consapevole della situazione psicologica della classe lavoratrice. Democrazia, umanità, libertà e sicurezza sono parole vuote per chi lavora a una catena di montaggio, dove il senso della vita è simile ad un’equazione esistenziale di difficile risoluzione. Tutto scorre nel vuoto  e il linguaggio si corrompe, ma la coscienza di Dagerman rimase immutata: «Essere il politico dell’impossibile è, nonostante tutto, un ruolo che personalmente mi può soddisfare come essere sociale, come individuo e come autore de Il Serpente».  Il romanzo «mette in campo ricchezza metaforica, potenza simbolica e beffarda ironia, movimentate da arditi salti di registro, per mostrare che la sola via per l’umano è non aver paura della paura» (seconda di copertina).

Il nostro bisogno di consolazione è incessante, Dagerman lo sa  e lo racconta con cinismo e freddezza sentimentale e letteraria. L’uomo è preda degli eventi storici, non è protagonista né può cambiarne il corso, e quando c’è una guerra per chi rimane in vita c’è la disperazione avvolta nel silenzio del dolore. Tuttavia, c’è sempre un bagliore che emerge nel pensiero di Dagerman: un po’ di speranza data dalla fratellanza. In un mondo in cui si è oppressi dalle ingiustizie civili, gli uomini dovrebbero contare soltanto gli uni sugli altri.

28/03/2023

 

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