Poesia, ragazza mia, un libro, un titolo, una semplice ingenua voce di un poeta inconsolabile che dai pastori Kirghisi ha imparato a guardare la luna e le sue cose di cielo. L’ansia di conoscenza ben si adatta alla quiete notturna e le domande si levano nella notte da un deserto all’altro per descrivere la semplice realtà. Il poeta si rivolge alla musa per comprendere le sorti dell’uomo e quella forza misteriosa che regge l’universo; constata e contesta la sua assoluta ignoranza. Richiama le citazioni dei Grandi, non per arricchimento dei testi suoi, piuttosto per un rimando ad un approfondimento.
Il pastore invidia il suo gregge non solo perché soffre pochi dolori, ma soprattutto perché non ne prolungano la durata con il ricordo e non conoscano la noia. Il poeta invece ha sempre un ricordo che esplode nella sua breve esistenza, ne apprezza la luminosità illusoria, consuma la mente nella condizione di essere vittima di un fastidio che non tende al riposo, anzi è in costante turbolenza di rimaneggiare l’esistenza della memoria. L’uomo è l’unico essere vivente che piange e il suo dolore rimane nelle vene, scorre per comunicare espressioni di emozioni.
La poesia è un dolore puntorio preciso come un orologio del tempo che non ha punti cardinali, che gravita come forza centripeta nell’infinito dell’insoddisfazione. Non è solo noia. È qualcosa di più. Non è solo insofferenza o fastidio. Vi è il problema di essere ascoltati in una piccola parte di mondo: insignificante nella sua divisibilità, ma drammaticamente essenziale nell’appartenenza ai luoghi dell’universo. L’ultima pagina di un libro è sempre esaltante come la fine della vita. Ricordare un verso è un esercizio del cuore. La poesia è risposta a se stessa, senza inganni, né trucchi, con le buone maniere della lingua.
Poesia, ragazza mia è anche un tentativo di promuovere la poesia, senza pretese, senza alcunché di zelo, semplicemente per ricordare, sì, ricordare che c’è qualcosa di poetico in noi, in mezzo all’effimero e alla reiterata disattenzione dell’uomo.