Così un Paese che non dispone di molti ammortizzatori sociali reinventa la missione delle public library
Nello Stato di New York l’80% delle biblioteche pubbliche dichiara di svolgere anche attività di sostegno ai disoccupati in cerca di lavoro. I tavoli delle «library» diventano l’ufficio provvisorio di chi ha perso l’impiego, i computer e le connessioni gratuite a Internet il canale per presentarsi ai possibili datori di lavoro. Spesso con l’aiuto di volontari: professionisti che nelle ore libere vanno ad aiutare i disoccupati insegnando loro come si costruisce un curriculum o quali sono gli errori da non commettere quando ci si presenta in azienda per un colloquio.
Nel Maine i fondi del «pacchetto» di stimoli fiscali anticrisi del presidente Obama sono stati utilizzati anche per finanziare corsi di aggiornamento professionale che spesso si svolgono proprio nelle biblioteche pubbliche. Che in Minnesota sono, invece, divenute il principale polmone dell’integrazione culturale delle comunità di immigrati nella società americana: «latinos», vietnamiti, somali, hmong (un popolo che ha le sue radici nella penisola indocinese e nel sud della Cina) frequentano abitualmente le biblioteche di Minneapolis dove possono leggere online il «Times» di Mogadiscio, consultare i siti Internet delle loro comunità d’origine, compilare i documenti necessari per regolarizzare la loro posizione o per avere accesso ai servizi pubblici con l’aiuto di volontari e degli stessi bibliotecari. Che organizzano anche corsi d’inglese per i figli degli immigrati, attratti nelle biblioteche pubbliche con l’esca di qualche playstation messa a loro disposizione.
Le biblioteche americane reagiscono allo sviluppo delle tecnologie digitali e alla diffusione dell’informazione online che le sta lentamente uccidendo inventandosi nuovi mestieri che trasformano sempre più questi austeri fari della cultura, silenziose cattedrali del sapere, in «community center». Apparentemente l’operazione sta avendo un certo successo visto che, nonostante il continuo calo del numero dei libri consultati o presi a prestito, secondo uno studio della fondazione filantropica di Bill e Melinda Gates, nel 2009 il 69 per cento degli americani ultraquattordicenni ha varcato il portone di una biblioteca pubblica.
Che però, nota Nicholas Carr – esperto di tecnologia ma anche coscienza critica della cultura internettiana – è ormai un luogo nel quale il rumore delle pagine sfogliate è stato sostituito da quello del ticchettio sulle tastiere dei «desktop». Vero. Anzi, è il luogo vivace nel quale rimbombano sempre più anche voci e risate. Un’istituzione che, insieme all’attività tradizionale di consultazione dei testi, offre i servizi più impensati in un Paese a corto di strutture pubbliche d’accoglienza: dal «doposcuola» dove i ragazzi fanno i compiti e giocano in attesa che i genitori tornino dal lavoro fino, addirittura, all’ospitalità degli homeless.
Sono ormai molte, da San Francisco alla Florida, le biblioteche che non solo forniscono (durante il giorno) un riparo ai senzatetto, ma organizzano per loro cineforum o, come avviene alla Mecklenburg Library di Charlotte, in North Carolina, veri e propri «book club». Nulla di rivoluzionario: il Primo Emendamento della Costituzione americana, quello che garantisce a tutti libero accesso a ogni tipo d’informazione, vieta di selezionare gli utenti, un comportamento che verrebbe bollato subito come discriminatorio.
Ma una legge federale autorizza i bibliotecari a imporre alcune regole minime di comportamento e loro la usano per spingere gli homeless a curare l’igiene personale e a non infastidire gli altri cittadini che si servono della struttura pubblica. La gente deve poter continuare ad andare in biblioteca senza il timore di essere infastidita: deve sapere che la «library» è un luogo di solidarietà che può visitare senza dover temere di ritrovarsi in sale maleodoranti o di subire l’aggressione di un ubriaco.
La Central Library di Madison, in Wisconsin, che sta conducendo una ristrutturazione da 30 milioni di dollari, ha ripensato la sua architettura – dalla disposizione e dalla forma dei sedili alla struttura e collocazione dei bagni – proprio sulla base delle esigenze di chi vive in strada.
La trasformazione in atto in qualche caso è favorita dalle autorità locali che non dispongono di altre strutture sociali per cercare di riavvicinare i disoccupati al mercato del lavoro e per gestire l’integrazione delle comunità di immigrati nella società americana. Nella maggior parte dei casi, però, il fenomeno è spontaneo: i bibliotecari si rimboccano le maniche per cercare di individuare un nuovo ruolo, una loro nuova utilità sociale, prima di finire anch’essi nella lista dei disoccupati. Come nel resto dell’Occidente che sprofonda nel dissesto delle sue finanze pubbliche, anche negli Usa le «cattedrali della lettura» sono in crisi: prima di ridursi a licenziare poliziotti, pompieri e maestri, i municipi fanno cadere la scure sui bibliotecari. Tanto più che, tra diffusione degli ebook e Google che ha già digitalizzato e messo online dieci milioni di volumi, spesso non serve più consultare il libro di carta: andando su Internet è facile trovare tutto l’essenziale.
E infatti il numero dei volumi presi in prestito cala ovunque (meno 6%, in media). Nella sola Public Library di New York nel 2009 sono stati ritirati un milione di libri in meno. Eppure, come detto, le 123 mila biblioteche degli Stati Uniti oggi appaiono più affollate che in passato. O meglio, le volte gotiche delle sale di lettura sono spesso semivuote, ma i sotterranei, sempre più spesso attrezzati con «desktop» e playstation, sono un formicaio.
La spiegazione sta proprio nella rapida trasformazione di questi luoghi in centri sociali che, oltre a dispensare cultura, offrono vari servizi, a partire dall’assistenza a chi cerca lavoro. Le domande d’impiego, ormai, si fanno online, ma più di un terzo della popolazione non ha un computer o non ha, comunque, accesso a Internet. Per risparmiare, molti hanno perfino disdetto l’abbonamento alla tv via cavo.
Nella biblioteca queste persone trovano un posto caldo, sempre aperto, con schermi ad alta definizione e i «desktop» che garantiscono l’accesso gratuito alla rete: si può lavorare o semplicemente socializzare mentre si guardano i programmi della tv cable. I bibliotecari, poi, hanno imparato ad aiutare queste persone a preparare un curriculum o una domanda d’assunzione. L’anno scorso in tutti gli Stati Uniti le «library» hanno gestito 30 milioni di richieste di lavoro (un milione e 700 mila sono andate a buon fine) e hanno ospitato corsi di aggiornamento professionale per quasi 7 milioni di americani.
Con i governi locali sempre più in crisi e la bancarotta che minaccia municipi e Stati come Michigan e California, cresce la pressione per tagli massicci di spesa accompagnati dall’abolizione di strutture considerate ormai inutili. E tra queste, molti cominciano a includere anche le biblioteche. Capita, ad esempio, di sentirne parlare da esponenti dei Tea Party, la destra radicale che ha alzato il vessillo del taglio della spesa pubblica e del ritiro dello Stato dalla vita dei cittadini.
Ma molti, anche a livello di governo, resistono a questa pressione: ritengono che un presidio culturale pubblico sia necessario anche in un periodo di crisi economica e in presenza di una rivoluzione digitale che va assecondata facendo della biblioteca una casa della tecnologia. Un luogo nel quale si prova anche ad assecondare l’evoluzione dei gusti dei giovani che tendono a saltellare da una lettura all’altra senza soffermarsi quasi mai a lungo su un unico testo e che magari acquisiscono qualche «skill» professionale più alla console dei videogiochi che immergendosi in un manuale.
Ovviamente gli scettici non mancano: «Se volete riempire sale di lettura poco frequentate con tavoli da ping pong e giochi elettronici, fate pure. Organizzate anche tornei di poker se volete. Ma non pretendete di continuare a chiamare quei luoghi biblioteche pubbliche», protesta Michael Godman, ex presidente dell’American Library Association. «L’argomento secondo il quale i ragazzi vengono da noi per divertirsi coi videogame e poi pensano “già che sono qui quasi quasi prendo a prestito quel libro di Dostoevskij”, a me pare semplicemente ridicolo».
Ma i più ritengono che non ci sia nulla di male a integrare la funzione tradizionale della biblioteca con l’offerta di nuovi servizi: gli utenti tradizionali non ne sono danneggiati e l’istituzione culturale viene utilizzata meglio.
«E poi la vecchia biblioteca basata solo sui libri», dice Romina Gutierrez, responsabile dello sviluppo tecnologico della “public library” di Princeton, «era un luogo passivo. Oggi le biblioteche devono essere luoghi che vivono e respirano, che cambiano ogni giorno». Luoghi in cui la creatività degli individui può prendere pieghe mai pensate prima. Succede, ad esempio a Rangeview, in Colorado, dove, alcuni dei bibliotecari più innovativi d’America, dei veri visionari, hanno aperto perfino una scuola di giardinaggio che svela a chi la frequenta l’arte del landscaping, e un laboratorio musicale nel quale gruppi di giovani di talento producono opere rock basate sulle storie di Harry Potter.
Ma il vero interesse dei politici è quello di fare delle biblioteche un polmone per la gestione di problemi sociali che una nazione con strutture di assistenza e accoglienza molto limitate ha pochi modi per affrontare. E le questioni sulle quali si concentra la loro attenzione riguardano una disoccupazione di lungo periodo che per la prima volta si sta cronicizzando anche negli Usa, come già accade da molto tempo in Europa e, soprattutto, l’assimilazione degli immigrati.
Davanti all’esercito dei lavoratori stranieri – regolari e non – quasi sempre sospettosi dell’autorità costituita, la «library» si offe come una struttura «neutra», pubblica ma non percepita come un luogo di sorveglianza governativa, alla quale l’immigrato in difficoltà si rivolge con una certa fiducia. E dove, sempre più spesso, trova la possibilità di frequentare corsi gratuiti d’inglese o viene istruito sulle procedure da seguire per avanzare su un percorso di naturalizzazione o per ottenere la cittadinanza americana.
Quello che veramente manca ancora alla «public library» Usa in questa complessa transizione è una partnership con imprese private capace di funzionare anche da polmone economico, soprattutto ora che è più difficile ottenere contributi pubblici. In passato il partner naturale delle biblioteche erano le case editrici ben felici di sostenere, magari fornendo copie-omaggio, enti pubblici che finivano per funzionare anche da loro struttura promozionale. Nell’era digitale tutto cambia: gli editori sono molti più guardinghi e qualche volta trascinano addirittura in tribunale le biblioteche che distribuiscono copie digitali non autorizzate dei testi da loro pubblicati, infrangendo così il copyright.
Molte biblioteche sono corse ai ripari rivolgendosi a società private come OverDrive Inc attraverso il cui software è possibile acquistare un certo numero di copie digitali di un libro. Chi lo prende a prestito riceve sul suo computer il file digitale del volume che si autocancella dopo due o tre settimane. Vale, ovviamente per le opere coperte da copyright, solo poche migliaia delle quali sono attualmente disponibili in versione digitale, mentre sono liberamente accessibili i 10 milioni di libri non più vincolati al diritto d’autore, scannerizzati da Google e inseriti nella sua biblioteca digitale.
Nell’era di Internet a sostenere le biblioteche dovrebbero essere, al posto degli editori, le grandi industrie delle tecnologie informatiche. Oltre il 70 per cento degli americani vive, infatti, in comunità per le quali la biblioteca pubblica rappresenta l’unica possibilità di accesso gratuito ai computer e a Internet. Finora, però, solo la Sony – il precursore dei lettori per ebook anche se ora è stato in parte spiazzato dai Kindle di Amazon e dagli iPad della Apple – ha provato a percorrere la strada di una partnership pubblico-privata lanciando il Sony Reader Library Program per aiutare le biblioteche ad allargare la loro offerta di servizi tecnologici agli utenti.