Dante, nel canto XXI del Purgatorio, al v. 85, dice che quello di poeta è il nome «che più dura e più onora»; è, in termini molto accessibili, il titolo che dura meglio nel tempo e che procura onore a chi se lo è guadagnato sul campo, essendosi dedicato a raggiungere l’eccellenza nella poesia. Viene attribuita, così, alla poesia la responsabilità di promuovere chi fedelmente la serve, chi la onora, a sua volta, esercitandola con rispetto e devozione.
Il poeta non è l’essere ozioso che il sempre facile giudizio di chi osserva superficialmente vede come un perditempo, uno che – perduto in un suo mondo fantastico – perde ogni contatto con la realtà e volontariamente vi rinuncia e perciò non esercita nessuna azione positiva in seno alla società.
Michelangelo, che oltre ad essere pittore scultore architetto era anche poeta, in un sonetto che gli ha dedicato chiama Dante «lucente stella» che con la sua luce rischiara il cammino umano e si fa portatore di verità.
Dante, Michelangelo non erano poeti interessati a lodarsi o a lodare l’opera altrui per essere lodati a loro volta. Per loro poesia e verità coincidevano. Ai poeti si attribuiva la sapienza e anche la capacità di toccare gli affetti più segreti, quelli che risvegliavano negli uomini il desiderio di azioni grandi e significative a cui tutti avrebbero guardato.
Al poeta, gli uomini chiedono di essere portatore di verità ed illuminatore della coscienza nel suo operare a favore del singolo o della collettività. Se il poeta è portatore di verità, la sua azione di trasmettitore della verità attiva un processo di riconsiderazione della realtà, di rimodulazione delle proprie azioni per ognuno che ne accolga il messaggio. Un poeta più vicino al nostro tempo, Salvatore Quasimodo, rilevava che ai poeti gli uomini chiedono la verità e la vita. E si domandava: gli uomini muovono queste richieste «perché non sanno nulla della vita e della verità, o perché si vogliono confrontare e sapere se quella che vivono è vita, se quella in cui credono è verità?»
(Luigi Scorrano)