Quelli come noi ben pochi ce ne sono. Chi siamo noi? Quale male potremmo dare?

Ogni giorno un giorno d’invenzioni e del sopravvivere opaco scaranfamu quarche cosa. C’è la responsabilità delle parole che condividiamo e frammentiamo come folli nel nostro andare per scrittura. Con essa ci lasciamo dietro la vita. Abbandoniamo per strada le parole comuni, corteggiamo la singolarità dei verbi, le incomprensioni degli aggettivi ci divertono nell’incompiutezza del dire.

Se qualche volta i nostri sguardi sono impazienti riusciamo a smuovere la provvisorietà di un proverbio.  Non c’interessano le offensive misurazioni di tempo. Balziamo in inattese genesi di poesia per disperdere schegge di dubbi. La poesia ci suggerisce le esplorazioni dei confini dell’impossibile e della dissonanza della vita. Cancelliamo, reinventiamo nell’adesione ad una immagine, fuggiamo dalle lusinghe. Disegniamo uno spazio per i sogni che gli altri impunemente ci soffocano e sempre alla gente parliamo.

Siamo stupidi sognatori.  Adulatori di filosofi coraggiosi di Sapienza e Verità: […] la bellezza della Sapienza è così singolare ed attraente, così nobile ed eccellente, infine così piacevole da invaghire e sedurre qualsiasi genere di uomini a tal punto che coloro i quali hanno gustato a fior di labbra i suoi piaceri e le sue delizie, come se fossero allettati dai frutti del loto, non possono più staccarsi dalla gradevolissima compagnia delle Muse. Quali meravigliose doti di questa regina e signora dei mortali si fingevano in cuor loro i nostri antenati tanto che per godere dei suoi amplessi, che sono più dolci del nettare e dell’ambrosia, ritennero di affrontare ogni disagio, sopportare ogni dispiacere, sostenere ogni difficoltà e ogni sventura e, infine, ritennero che valesse la pena di correre ogni pericolo (G.C. Vanini, Anfiteatro dell’eterna provvidenza, Epist. III,IV).

Ogni giorno un rogo. Crocifissi sempre sul legno della croce. Segni che nulla indicano. Innamorati della parola che veicola suoni, profumi, sintomi, appigli, ma, fondamentalmente, pensiero. Disveliamo il “sentire”, l’avvertire nella propria carne le questioni prima ancora di aver dato a esse un significato. Vi è un’istanza filosofica, un’esigenza della ragione come direbbe Kant, per l’apertura ad ogni nuovo possibile significato delle cose nella sua stessa condizione di verginità per una possibile comunicazione d’esistenza affinché il poeta giunga alle sue creature, ai suoi versi, alla sua realtà poetica.

Eversivi. Colpevoli. Eretici che non sudano e non hanno paura nell’idea di essere giudicati e condannati allo strappo della lingua. No!

E poi…

Istituiamo il tempo della poesia con l’astrazione di un silenzio per accostarci all’orizzonte di un suono per distrarci dei nostri saperi e mediare acquisizioni di ciò che ci divide verso una geometria nascosta, verso un ordine che è l’ombra di un senso nella finitudine della sapienza per definire le nostre attitudini. Non sappiamo ancora navigare tutti i mari della poesia e della filosofia e molte acque non danno corrispondenze alle nostre speranze in un continuo e costante rinvio. Studiamo la lingua, i campi semantici, i significanti, le luci e le ombre delle fughe ma il lavoro è tanto e faticoso. È necessario un’indagine riavvicinata delle forme di verità nel territorio non per interpretare ma per tradurre il processo che instaura i principi di una lingua. Osserviamo con gli occhi dello straniero in condizione di meraviglie e di autonomia, suggerendoci metodi e sistemi filologici nuovi, fuori dai consueti canoni sterili. La voglia di avventura di un verso è dentro di noi, cerchiamo una metafora a comporre la materia di un testo formale ed essenzialmente poetico. Fotografiamo un volto, un paesaggio, un sentimento un dolore, una conversazione attorno al linguaggio e all’invenzione con stili e  modi diversi e li trascriviamo nell’immenso libro della poesia. Una parola fuori posto,  ribelle,  s’intruppa, recita maledizioni, dà scacco al linguaggio, ghigna e allontana la Signora. Un parto difficile del testo profana il “fare” e il “dire”.

Il poeta sei tu che leggi

Partecipiamo al convivio della poesia con singolarità e irripetibilità di un’esperienza, consapevoli che “le vers attend un sens” dice Valéry. E non è facile individuare il senso che oscilla nelle attese che un significato si materializzi. C’è anche un senso che non è presente sul quale bisogna vigilare e  nell’indicibilità del senso si formano altre scritture perché il senso potrebbe essere altrove. Ancora Valéry sul senso: “se mi si domanda che cosa ho voluto dire, rispondo che non ho voluto dire, ma ho voluto fare, e che è stata l’intenzione di fare che ha voluto quello che ho detto”. In queste parole il senso s’insinua come punto fermo del dire e fare poesia che presuppone l’ascolto, un’apertura al silenzio del testo che con la lettura dispiega sonorità e ritmo del verso in un rimbalzo di stupefacente piacere.

Del dire vi è necessità del divenire della scrittura; del fare la volontà di aver detto quanto è insito nel dire, seppure in linee di confine non definite e in situazioni di restringimento e di espansione in relazione alla capacità poetica.

Fare poesia perché non si ha niente da fare è ingiurioso e irrispettoso. Dire poesia perché va detta è imperdonabile. Dire poesia perché è poesia, questo sì! Fare poesia perché le parole chiedono forma di scrittura e delegano il poeta a farlo nel lavoro di condensazione e ricomposizione del verso per andare oltre il limite della cosa, anche se le cose ci appaiono sempre nelle parole che le dicono. Ed entrare nel cuore sconosciuto delle cose, secondo Rilke, è possibile, con la parola. Ma qual è la fenditura che ci permette di giungere alla cosa prima della cosa stessa?, prima ancora che essa diventi presenza? Leopardi ci indica che solo poeticamente è possibile figurare un “prima” della cosa. E forse proprio per questo che la poesia è un oceano celeste che non si accontenta né della profondità né dell’estensione in cui è contenuto e invade altri oceani per allungarsi, contorcersi in acrobazie di meraviglie, elevarsi ancora parola.

(Pubblicato in “Paese Nuovo”, 13 febbraio 2013)

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