Cado in ginocchio al quinto verso. Tartaglio sillabe con odio. Sputo sulla rosa. Imbratto il canto verginale di questa poesia che deflagra inaudite necessità di rima. Mi copro la fronte per un’empia confessione. Immagino un pericoloso abbandono, un lasciarmi andare per una santa modestia.

Qualcosa che appartiene all’idea non riesco a imprimerla e non è un problema da poco. Mi sento come indebolito dalla mia forza, come se avessi crusca nella ragione, mi ravvedo del grano sciupato in mille acrobazie letterali, le geometrie dei versi sono una pietosa risorsa, sono un freddo sognatore che non riconosce la bella fantasia, sono insonne, un’opera mi costerebbe adesso una gran fatica, la materia è grezza, ho bisogno di oro, piombo ne ho in quantità, cianuro vorrei per instillare veleno nelle vene delle parole, l’anima ha una gran fretta di copulare con la preghiera, occorre che lavori perennemente a forgiare immagini di luoghi e persone, la mia fabbrica è in difficoltà, non ho un amico scienziato per un congegno di esistenza senza castigo.

Sono ammalato e ne so più del medico. La cura è correttiva, non guarisce, palliativa, illusoria, chimera del destino. Sono intollerante alle divisioni complicate delle porzioni di sapere che creano pasticci,  ne prediligo invece la completezza di un frammento. Detesto chi fa della propria fede un’arma per sistemarsi l’anima bacata come una mela, putrida, metastatica, e recita poesie d’amore e non sa nulla dell’amore, prega idoli, sorride ai complimenti, pensa di essere poeta ma anche avvocato, medico, scrittore, critico e politico. Delle sue cialtronerie si consolano gli stolti, i damerini dei salotti, gli uomini infiocchettati di merletti, le donne frustrate dall’amore, i mariti invalidi d’amore.

Questo mio verso non va. Senza una parola. Il verbo c’è. L’aggettivo è innocuo, scialbo. Sono senza dio, davvero. Ho, però,  un santo minore, poco conosciuto, non adorato né supplicato. Conservo la sua immaginetta, l’unica esistente. D’altronde sa già cosa vorrei, perché dunque dovrei chiederglielo. Non gli chiedo pioggia o vento, oro o denaro, successo. Nell’attesa di sue istruzioni, mi attrezzo di buone intenzioni: fotocopiandomi e riproducendomi in modo esponenziale nell’architettura di una ragione in costruzione, affinché possa concedermi un minimo di sollievo della gravità di sfacciataggine perenne che ne condiziona il perfezionamento, stante il tumultuoso flusso di sentimenti e le vibranti incertezze di certezze mistificate dal conformismo generale e (apodittico?) di un agire deviato da circostanze deplorevoli, che non riescono a reggere l’integrità di un diritto alla libertà e di un dovere alla moralità.

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