Era puntiglioso nella sua mania di lettura:  la sua vita era solo un sogno fra le nuvole in un mondo di immagini approssimate alla nitidezza dell’ipocrisia.  Gli piaceva precipitare nel silenzio delle pagine dei libri, inventati scritti e custoditi nella sua casa di periferia, obliqua con fiori e piante dappertutto, in periferia del paese, là dove ogni cosa era strumento di scrittura.  Leggeva non per vivere, ma per ricordare; odiava le illusioni e i rombi della frenesia dell’azzardo che sfuggivano ai suoi occhi colmi di complessità. Sorrideva quanto bastava per elargire un comodo rispetto agli amici ipocriti. Discuteva con moderazione, senza appigli filosofici. La gente lo ignorava e lo detestava.

La polizia più volte gli aveva intimato di sospendere la lettura pubblica. I libri nella sua città non erano visti con favore, e lui era stato più volte diffidato dalle autorità per porre fine alla sua attività di scrittore e di mercante di libri e di parole, di pagine scritte all’istante, di poesie inutili.

Nel silenzio melanconico della sera, mentre ogni desiderio suggeriva immagini di luna, sul balcone della sua casa, leggeva il suo libro preferito Il tramonto del sole del poeta Aziz Abazah, in attesa che quanto era stato già deciso si concludesse.

Era sereno nella turbolenza della memoria, della quale osteggiava la nostalgia e la malinconia che da essa inevitabilmente derivavano. Prediligeva la sterilità delle emozioni confezionate su misura senza impeto per non eccedere nel sentimentalismo che nello scorrere del tempo si corrodono di lacrime.

Il giorno del suo arresto la polizia lo trovò per terra con gli occhi insanguinati: aveva preferito perdere la vista per sempre.

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