La guerra è atrocità e morte, ma anche propaganda. Assistiamo ogni giorno a dibattiti vivaci a cui partecipano generali, ambasciatori, giornalisti, scrittori, militari, filosofi, politici. La guerra ha stravolto molte regole, tra cui quella dell’informazione, che essenzialmente ci ha reso edotti soltanto su chi è il cattivo (Putin) e il buono  (Zelensky), ma la storia non regge su queste categorizzazioni né sulle censure delle voci sgradevoli. Il conflitto tra Ucraina e Russia è una vicenda complessa e di notevole tecnicismo, il confronto quindi dovrebbe svilupparsi tra esperti. Le opinioni di altri (non esperti), seppure autorevoli, rischiano di non centrare i punti nodali ostacolando la discussione. La prova è sotto gli occhi di tutti: in televisione il gran numero di ospiti, chiamati a dire qualche battuta, producono qualche battibecco e qualche risposta o slogan. Il richiamo generico al pluralismo, sempre evocato per elevare la qualità della discussione, di fatto è ridotto a mera propaganda, ovviamente con qualche eccezione. Nei dibattiti televisivi vengono create contrapposizioni forti al solo scopo di fare audience, dove gli urli, gli insulti si susseguono senza alcun pudore. Tutto ciò non è giornalismo ma spettacolo: il giornalismo può anche ricorrere agli scontri accesi tra opinionisti contrapposti, ma non può sostenere lo scontro come scopo principale dell’informazione. Avremmo preferito un po’ più di autocontrollo e di moderazione, dobbiamo invece sorbirci opinioni confezionate al momento per mettere in risalto solo l’aspetto stupefacente di un certo modo di argomentare fuorviante, con una narrazione non storicizzata.

Per raccontare la guerra c’è bisogno di competenze differenti, ma soprattutto di onestà intellettuale per comprendere i fatti, soltanto i fatti e non gli interessi politici di una parte o di qualcuno.

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