Era il periodo del solleone. Il sole si arrampicava fin sopra i capelli e arroventava il corpo nell’acciaieria del Sud. Lo Ionio ansimava scirocco, il ghiaccio scarseggiava, i climatizzatori non funzionavano, l’energia elettrica era erogata al minimo. Il paese sudava, la gente mormorava e minacciava rivolta.
[Questa storia non è una storia, se lo fosse sarebbe realtà, magari potrebbe essere una favola, una di quelle che punta il dito sulle magagne del mondo e solleva i veli dell’ipocrisia. Comunque sia, mi pare non sia né l’una né l’altra. Niente di alta fattura letteraria. Non pensiamoci tanto, poiché nessuna formula umana potrà garantire il possesso di una verità ultima. Ecco, benedetta Verità!].
Girava la donzelletta con il suo cane, capelli dorati, minuta, pimpante. Il cane dice Platone che è la bestia filosofica del mondo, siete d’accordo? Invero, trattare di filosofia era anche la passione degli abitanti del paesino, poggiato su una collinetta dedicata alla Madonna, a pochi metri di un tagliamento che serviva da ferrovia. Filosofia non come conoscenza, ma come pratica di vita. Altri cantavano e ballavano, festivalieri sempre. Cultura da vendere e per una chiarificazione della visione del mondo con presentazioni di opere alla ricerca di un senso letterario. Un’antologia di figuri all’apparenza irreprensibili ma all’occorrenza ben altro, dediti all’opportunismo, al protagonismo schizofrenico. Una parte della gente incapace di sorvegliare il futuro, si appendeva a strani appigli estratti dalla monotona quotidianità di un paese che voleva soltanto essere normale, forse con l’ambizione di uscire fuori da sé e scoprire i mondi degli altri. Le abitudini rassicurano ma è pur vero che incatenano, soffocano la libertà.
Alcuni abitanti erano dediti ormai da anni all’idea di prendere il paese, echeggiava sempre la solita frase «QUISTI L’ANE SPICCIARE» . Il capobranco come un baldo cannoniere sparava cannonate visionarie; la magistrata, invece, donna di altezza giuridica, la signora (così la chiamavano i notabili) mutava spesso abiti di eloquenza per vedersi austera e forte. Quisti l’ane spicciare, locuzione che sintetizzava la non tolleranza degli altri, il fastidio di confrontarsi, la bramosia di imporre una propria politica a spregio di qualsivoglia rispetto democratico. La solita solfa di una parte che nella moltitudine era minoranza, voce immobile e informe di statua girovaga in cerca di un piedistallo. Si rappresentava ogni giorno una realtà di distrazioni e di indifferenze, non conforme, non certificata, dalla quale emergeva la cattiveria della gente dedita alla passione di se stesse, convinte di detenere la bilancia, dove soggiacevano i fantasmi di autonomia e al contempo di possesso, di rivendicazione e di grido liberatorio da un incubo. Era la commedia della parola esclusa dalla grammatica e deturpata nell’etimo, vivisezionata secondo sporche esigenze di lingua parlata. Era la parola spacciata per verbo, insulsa e introitata in un modello folcloristico e populista, roba da aristocrazia proletaria. Luoghi comuni senza un fondo di verità. C’era un viaggio verso una perdita di senso della vita; c’era una fatale bizzarria della sorte a mandare in frantumi qualsiasi tentativo di assestamento in continue turbolenze telluriche di parole e di verbi.
Ottusi esegeti del luogo comune che nel tentativo di sacralizzarlo nella parola veniva invece cucito addosso a fior di rivoluzionari di una finta rivoluzione, che dava l’impressione di essere arrivati allo scopo, di aver capito tutto, invece tutto scivolava via, sfuggiva, e ricadeva nell’identica retorica di partenza, con un’altra locuzione ‘QUISTI NON LA SPICCIANE MAI’.