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Il ragazzo dalla faccia pulita

Il ragazzo dalla faccia pulita. Saggio su Rimbaud, con postfazione e una versione del “Battello ebbro”di Cateno Tempio, Villaggio maori edizioni, Collana Ellissi (direttore Davide Dell’Ombra), grafica Ivan Barcellona, copertina di Gabriella Torsello.

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La vita di Rimbaud è la storia di un poeta che ancora incide profondamente sulla cultura e sulla coscienza dell’Europa. La sua è una storia straordinaria, intrigante, misteriosa, a volte incomprensibile, maledettamente autentica. L’unico ad aver contemplato l’ignoto.

Per acquistarlo 

– Recensione di Alessandra Peluso su Corriere Salentino, 3 dicembre 2014   Leggi 

– Recensione di Elide Apice su Sannio Teatri e Culture, 09 gennaio 2015 Leggi 

– Recensione della redazione su Affariitaliani.it, 23 gennaio 2015, Leggi 

– Recensione di Gino Centofante su Aphorism, 02 marzo 2015  Leggi 

Hanno detto di lui

A me pare che fu soltanto un poeta di una drammatica crisi della storia d’Europa, utopisticamente desideroso di un riscatto per sé e per gli altri, al quale le strade di Charleville o il vuoto delle domeniche al villaggio davano spasmodica voglia di partire e che l’idea di essere un reprobo per una certa società e un plebeo nella repubblica delle lettere rendeva più aspro. Se ciò è vero, è possibile chiarire la poesia di Rimbaud anche là dove è ermetica.

(G. Nicoletti, Arthur Rimbaud. Una poesia del canto chiuso, ESI, Napoli 1972).

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Presenze di Rimbaud

Rimbaud con Sossio Giametta
Rimbaud con Sossio Giametta

 

Foto di Mario Marulli 19-11-14
Foto di Mario Marulli

 

 

 Foto del libro 16-11-14

Che si mettono a fare…

Assistono ogni giorno a una nascita, ma sono distratti e non ne colgono la bellezza. Le facce di cera degli uomini vuoti gioiscono del proprio delirio di onnipotenza, tant’è che pensano di possedere tutto, padroni dell’infinito sull’indefinito. E non basta neanche l’improvviso irrompere del sole a distoglierli dalle ossessioni di potenza che delle proprie fragilità sono re nudi senz’anima.

Non si accorgono del germoglio di una sacra luce che li sovrasta, nelle ombre dei propri desideri stringono l’inverno che si mettono a  fare. Piangono per finta, adulano per necessità. Divina poesia non conoscono, a novellare fandonie sono scrittori, poeti di frottole rimate. Sognano fantasmi a buon mercato con le maschere degli eroi per un appagamento revocabile di un presente dolciastro e impoverito del lievito umano e poetico. Sciatti!

Qualcosa di serio?

Don Chisciotte mi pare d’essere lui, in questo pomeriggio incerto, inventandomi avvenimenti per sfuggire a quelli che mi incalzano.

Quale verbo posso adoperare per dispiegarmi negli antri del destino? Quanti libri e quante pagine sono ancora per me fonte di emozione? Non mi va di studiare la qualità degli avverbi o la proprietà degli aggettivi. Vorrei essere il genio guastatore della lingua per non capirci nulla. La verità è che non voglio più sopportare il peso di una lingua, che mi mortifica per una virgola, o per un punto e virgola, o addirittura per due maledetti punti. Fossi Saramago sarei già felice. Cosa ormai mi resta da scrivere? La follia incalza… e non sono Nietzsche che la sopportò per undici anni, Hölderlin per quaranta.

Troppi vocaboli intralciano la ragione e l’agire è difficoltoso, laconico, un paradiso dell’ebetudine.

Mi trastullo con Shakespeare per coltivare una frase d’amore che possa sconvolgere il lirismo. Ho necessità di demolirmi per ricostruirmi idioma, trasfigurandomi lingua crudele di un’opera incompleta tanto da patirne felicemente il destino.

Scelsi l’inferno

Scesi in inferno per necessità di redenzione
dove fra le fresche fiamme lessi il martirio
che del mattino in croce era dio al centro;
ma egli non funzionava per me,
attratto dalle tempeste respingevo i signori della luce.

Inferno leucemico fecondatore di infiniti mondi,
ero un poeta di minute di poesie che postavo
su facebook con logora amarezza in stati di amnesia
grosso modo ero forse un poeta senza alloro
che affondava nelle fiamme e sorrideva al demone.

La pura narrazione non mi aggradava, in cerca com’ero
dell’autenticità nel luogo dove pulsava la vita,
inginocchiato davanti alle metafore della menzogna
ero volutamente scomparso di scena per scelta
in preda alla follia mistica del dire.

Mi accorsi dell’originalità della mia vita nell’abbraccio
della notte di luna piena con i lupi ammansiti,
a squarciagola urlai di non andare più via
striato di sangue al crocevia delle sacralità
mi compiacqui di essere stato fatto a pezzi.

Leopardi:

La natura non si palesa ma si nasconde, sì che bisogna con mille astuzie e quasi frodi e con mille ingegni e macchine scalzarla e pressarla e tormentarla e cavarle di bocca a marcia forza i suoi segreti. ma la natura così violentata e scoperta non concede più quei diletti che prima offeriva spontaneamente.

(Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica)

Senza peso

Dire se possibile – ancora – l’equivalente di un sorriso o di altro, forse niente
il mondo gira, questo centro no, non sa prolungare l’orizzonte, senza dubbio, senza
invenzione, aggrappato a senilità, una pagina bianca, processioni di morti,
braccia allargate, dunque, ora stesso tempo, stesso ritmo della seconda,
addossato, contiguo nel silenzio, assenza, niente da dire, che dire, quale appoggio,
per il momento – più tardi – una volta passata l’angoscia, salasso assassino, sangue
nelle orecchie, freddo dappertutto, incontrollabile, dura un po’, tenere duro, calma
di morte, sconforto dell’istante prima di rilasciarsi, ritorno della forza, contrazioni
improvvise, senza strazio, cambio di latitudine, magia interiore, gli occhi riaperti,
l’infinito dietro l’angolo, curve nella piazza, il momento cambia, isolamento di
prigionia, solo un attimo, senza che alcun suono venga a riempire lo spartito,
qui vicino, il volto fracassato, braccia intorno alla testa, leggere la rottura del
tempo, domande che scoppiano, bolle d’illusione, sensazione di vita, un po’
di aria, morte preannunciata, infine senza dire.

Cocaversomane

I giorni m’inseguono nell’orologio del fare per sottrarmi tempo. Annunziano franchigie di sofferenza e  in appendice al tramonto elevano uno strano altare, quasi solenne, inopportuno per me che non sono santo. Non ho il giglio del paradiso, né la palma del martirio. Non sono un baldo giovane, sono un poeta strafatto di versi, cocaversomane, sconsacrato dalle voglie sante, inopportuno all’incenso. Questi giorni mi arrapano di poesia, e di questa folle passione stampo fulmini di pagine avverse al mistero sino a giungere al mio tacito morir, consequenziale alla vanagloria di un giorno che avrebbe dovuto appartenermi e mi è stato sottratto per dispetto.

Non mi resta che prestare attenzione al titolo del libro che abbia un senso, quel senso espresso dall’autorità del Tempo che non ha alcun fine da raggiungere né alcuno scopo da realizzare, non apre scenari di finitudine, non redime, non maledice, ma promuove un orizzonte di senso poetico.

E sulle ceneri del Tempo bruciato che odora di resina di autunno  nelle terre dei pini garbati e sfrondati dal vento del Salento,  coglierò  un altro Tempo fatto di giorni della Terra degli ulivi. Avrò dominio di quiete ancorato alla volontà del verso, mio unico e solidificato linguaggio.

 

L’Occidente nelle analisi di Cateno Tempio in “Apocalissi e Conversioni”

L’Occidente cos’è adesso? La risposta potrebbe essere questa: un inferno di demoni che vengono nutriti anziché combatterli. Eh sì, l’Occidente non è il paradiso della civiltà, troppe contraddizioni e infiniti mali lo affliggono. Il libro  di Tempio Apocalissi e conversioni  edito da Villaggio Maori è il libro sull’Occidente,  che conduce alla consapevolezza di considerarci occidentali. Questo luogo geografico della civiltà è minato da interessi economico-finanziari universali che minano le fondamenta su cui per millenni si è appoggiato. Inutile nasconderlo non è quello di una volta.

L’autore ipotizza scenari apocalittici, da cui però si può ripartire serenamente secondo le regole della natura. La distruzione sembra essere un atto dovuto per dare continuità ad un sistema di civiltà minacciato da più parti. L’Occidente in caduta libera secondo le leggi della fisica? Allora bisogna fare qualcosa da subito. Arrestare la caduta o favorirne la velocità? Oggi come dovrebbe essere l’Occidente? Domande a cui non è facile dare risposte convincenti e condivisibili. Tempio ci prova!

 

Leggi la recensione al libro su SITOSOPHIA 

 

Fiori del mattino

L’aria è greve. I fiori geometrici, spigliati, profumati  di avvenire, sistemati in un vaso bianco con un sole, li riconosco.

Ci sono le rose invidiose, legate in fascetti verdi, gli steli uguali. Il giglio è rosso in viso, timido, tende a stare ai lati per respirare umiltà. La violetta irrompe con le sue manie di prima donna. Aperti, cercano il sole tiepido, giovane, quello della riviera per non tardare futuro e consumarsi nel profumo del mattino.

Fiori di desideri, inattesi. Del poeta l’essenza di poesia vergine.

L’attimo di Orazio

Altre come bestie quiete al pascolo stanno ai vapori della luna curva all’orizzonte violetto.  La donna che dei suoi tempi era la più leggiadra siede e sorseggia un drink. Poi armeggia con insolenza una sigaretta vaporosa. Adocchia qualcuno e non si dona. Eppure meno onesta non lo è. Vive tra lazzi e sfizi senza curarsi dello stremo andare, né del faro di gioventù che non dà continuità di luce. Sola. Beve anche il caffè. Legge Baudelaire quando nelle note degli amori annusa il male dei fiori, s’incipria di sensualità, sogna i corpi ardenti dei giovani acerbi e fruttuosi come alberi del giardino dell’Est. Udendo bravate e goliardiche risate di giovanetti s’impenna ancora più donna. Non vince l’amore del prediletto, né bastano le sue futili dolcezze a rimediare un bacio. È sempre la donna del mattino seguente che nell’apparire del giorno smette gli abiti del passato, profumando oltre ogni misura l’attimo, quell’attimo di Orazio, sempre fuggevole, mai confortato di certezza, acconciato di delusione.

Madonna compiacente, non ha dell’amore – che avviene nel cuore – l’appagamento giusto e onesto; il ristoro è angoscioso e i suoi occhi si specchiano nel dolore delle visoni tristi della vita – rimaneggiata fin troppo –  nella reputata durezza dell’avventura che è crudeltà di peccato in meraviglie di presunzioni.

Donna non più come si aggrada alla bellezza di sole appena sfornato dal cielo. Di cortesi inchini non è la regina. Dell’infermità di gioventù spesa non ha nobiltà d’uso. Le ricchezze che gli donarono spese senza l’idea di maritarsi, e di quei giorni cotti il ricordo di nostalgia non basta ad alleviare spasmi di beffe.

Quantunque un tempo bella, ora non lo è più. Degli attimi non colti vi è il peccato di viltà.

Camillo, basta il nome…

Tondo, tondo come l’O di Giotto, impareggiabile nel pettegolezzo, garante della comunicazione paesana, confidente, campione della tolleranza, simbolo dell’allegoria del sorriso. Lo Zitone, suo compagno d’armi, lo coadiuva nelle disquisizioni pubbliche semiserie nella piazza Garibaldi, ogni giorno e in ogni momento. In Camillo volente o dolente ci s’incappa comunque, nessuno può sottrarsi alle sue grinfie simpatiche d’intrattenimento.  Filosofo, se per filosofo s’intende il creatore di un ampio sistema di pensiero basato sulla filosofia della pancia e al mondo sensibile del chiacchiericcio. Nulla ha scritto, tanto ha operato invece in funzione dell’oralità, diffondendo il verbo della parola, missionario della congregazione NU HAI SAPUTU NENZI?, con sede in ogni luogo.

Cittu tie, puttana, ca sai!: è la sua fulminea risposta a una domanda pettegola che gli viene fatta. E lo Zitone (il Voltaire tugliese) ride, e ridono tutti, anche i piccioni cagoni della piazza sbattono le ali in segno di compiacimento. Il suo quartier generale è al caffèpercaso, dove la commedia dell’equivoco è replicata e rielaborata in divertenti parodie dell’esistenza umana. Camillo si occupa degli argomenti più svariati, ma dedica anche molto impegno agli affari spiccioli: morte, amore, tradimenti e altro.

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Si può dire che abbia inventato la figura del “pettegolo intellettuale”, che si sarebbe sviluppata poi anche altrove, contando altre figure di spicco, di cui si preferisce non farne menzione.  Rousseau scriveva per l’amore di scrivere, Camillo parla per amore della parola. È la star della piazza, anche durante le prime ore del mattino, assorbendo lo spirito del tempo, sulla panchina sudicia o sulle sedie traballanti del bar, ha un culacchio pronto per la narrazione con lo stile inconfondibile di chi la sa lunga e bene. Ordinatore e manutentore delle vicende umane paesane sotto l’alto patrocinio dello Zitone. Editorialista orale, opinionista al convivio piazzaiolo, ma anche attore poliedrico, simpaticone, rubicondo, generoso così tanto da mettersi sovente nei guai, divorato dai cattivi, ottimista sino all’inverosimile.

Adesso sul suo grande faccione di persona buona una piega di malinconia prende ruga, trasuda pensieri di delusione, non è più il salumiere pirotecnico amato da tutti; ma detiene ancora il suo ruolo di centralità della comunicazione allegra e chiassosa e quando non morde c’è sempre qualcuno a stuzzicarlo e a farlo sbottare in parole e paroloni, sempre con il condimento dello sfottò.

Camillo, uno che faceva il bene per paura di fare il male, mai vanitoso e superbo. I giudizi degli altri, colmi di livore, non li merita, i disordini procurati li ha sacralizzati nella profondità del suo cuore, aggiungendo alle imperfezioni immagini fantasiose della vita con lo scopo di compiere l’amore anche di fronte alle assurdità, sottraendo le consequenziali impossibilità del suo essere Camillo e soltanto Camillo.

Le quattro stagioni, così le chiamavano

Di giorno per le vie del paese procedevano lente con merletti e rossetti, erano donne, quattro stagioni così le chiamavano in paese, non so la ragione, di simpatia spandevano i passi, sorridevano al saluto con eleganza, corredavano Tuglie di leggiadra indifferenza, la loro vanità non chiedeva rispondenza, il ventaglio di colori apriva l’aria alle loro forme sensuali, sempre allo stesso modo, ricche di stoffe e cappelli, si specchiavano negli sguardi sopiti dei passanti, dietro la finestra di casa in via Veneto sospiravano amori, si ravvivano i capelli con lacca Elnett quando girava il disco del grammofono, su e giù per la via principale con regalità, lei la principessa vaporosa seguita dalla dama dimessa e sconcertata per l’attenzione, donne di bianco e di tutti i colori della primavera, erano sì stagioni ma donne senza alcuno a fianco, sorprendevano i ragazzi nei loro arpeggi di chiacchiericcio, attendevano invano, e del tempo caduco non ebbero mai prontezza.  Ingobbite di assenze aspettavano il fulmine in quel cielo – sempre azzurro – della loro eterna giovinezza di bambine.

Giovanni te l’ove

Così lo chiamano tutti.

Il soprannome è un’antica usanza paesana per identificare in modo inequivocabile una persona.

Giovanni te le ove, molti anni fa, vendette una moltitudine di uova. Per tale ragione si è meritato, conquistato, il titolo te l’ove.

Lui le uova, ancora,  le ha nel cuore. Giovanni, tondo come un uovo, corpulento e panciuto, ricco di albume e proteine, immagina il mondo come un grosso uovo. Claudicante nel parlare, inventa sovente strani neologismi.  Ride, scuote la testa, s’incunea nei discorsi con straordinaria comicità.  Non resiste al profumo della mortadella e del pane caldo.

Del tempo che non spende non si muove nessun rimprovero.  Delle ansie del mondo tace e soggiace al sorriso di una battuta.

Giovanni te le ove, così è noto,  filosofeggia con piacere la sera con i soliti amici; beve caffè in ghiaccio;  è studioso di Omero e di Epinemone; mentre del mangiamento è cultore. Non ha memoria, d’altronde cosa dovrebbe farsene, atteso che è infinitamente presente soltanto nel presente, quanto basta.  Geniale nel leggere oltre il vero significato delle parole, scompone parole per ricomporle in un nuovo dizionario della lingua dialettale.

Sue citazioni famose: l’acqua del mare va e viene… lasciala andare. La fuga del cavallo morto è già andata. Mangia e non dormire. Il cavallo di Agamennone era veloce come il piede di Achille. La maga Cirse (o forse Cinzia) trasformò gli uomini in galline per nutrirsi meglio di uova.

Giovanni nelle sue divagazioni mentali rallegra la compagnia di amici che, nelle sere agostane, s’incontrano al bar illollò,  come ai tempi andati del buon vicinato per srotolare quotidianità.  Fa da scacciapensieri, nei suoi ragionamenti non si palesa mai il dubbio: tutto è chiaro e trasparente come il bianco dell’uovo.

Donna Summer, la sua donna, donna felicità, lo accudisce e lo nutre con amore, sopportando la sua indole di buontempone. Giovanni ricambia con languidi e incompleti ragionamenti, che seppure sintomi d’innocenza e di fioritura di bontà, affliggono il senso pratico delle cose.  Maestro delle orchestrazioni narrative elegge il vuoto a protagonista principale, e intorno ad esso costruisce il racconto di un fatto attraverso una edificazione laboriosa di stranezze.

Le uova, le galline, i galli sono il centro di gravità della sua vita. Cosa mai può capirne di tutto ciò la Dina te Parabita? (sua amica) Niente, ovviamente.

Eh sì, è davvero una commedia (degli equivoci) al bar Illollò, la sera, d’agosto, con lu faugnu che uccide, e lu Ppinu ca nu sente, ma ole cu sape tuttu. Sempre spramatu, pareddhru, nu nde tane mangiare pe via (comu tice muierasa) te lu risentimento intestinale. Cci ghe sta cosa poi nu è datu sapire. Fattu sta, ca stu cristianu mangia sempre minestre e schiacciatine te carne, la sera dopo le undici. Allu pomeriggiu, invece, pane squaiatu intra l’acqua cu llu zuccheru. Pe quistu tene sempre nu culore iancu, ca te spaventi cu llu viti. Ma iddhra, muierasa, se nde frega, iddhru nu ave mangiare tutte le cose, solamente pane e acqua. Comu face cu campa stu cristianu è te veru nu miraculu.

Certamente brava gente, magari con qualche ragionamento stonato, ma con buone maniere come Luigi e Carmelina. Luigi, educato, discreto, assiste alle furiose disquisizioni con distacco, e quando ritiene utile lancia un richiamo alla normalità. Carmelina delizia con racconti di vita, diciamo storielle, qualche volta piccanti, ma sempre con un risvolto morale.

Eh sì, storie insignificanti, banali, gratuite in cui Giovanni (te l’ove) frantuma tutti i nessi logici per sorprendere e strappare una risata.

Così, dunque, trascorrono le ore, dopo le ventuno, questa gente d’altri tempi che – nel convivio serale – rivivono qualcosa del passato che soggiace al ricordo. Giovanni è tassello di queste storie minime, (ma significative) di parole e immagini.

Diavolo di un gallo

Li hanno torturati, umiliati, sbeffeggiati in nome di una verità che neanche coloro che la proclamavano la conoscevano. Li hanno condannati al rogo per eresia, secondo il loro modo d’intendere. Uomini bruciati, arsi vivi non per tutelare la parola di Dio bensì il potere di una casta religiosa che del bene e del sorriso dell’uomo non ne importava nulla. Martiri della filosofia, un elenco che fa rabbrividire, ecco la prova da Wikipedia: Lista di persone giustiziate per eresia.

Quanti errori e quante sentenze inappellabili e ingiuste, era più facile appiccare fuochi che considerare la giustizia divina nella sua pienezza e misericordia. Storie di fuochi e strane sentenze di eresia: un libro infinito di pagine di cenere e di disprezzo per l’uomo che non intendeva assoggettarsi e immaginava Dio come poteva essere.

Anche un gallo finì sul rogo. Una storia incredibile del tribunale della città di Basilea che nel 1476, altre fonti indicano il 1474, processò e condannò al rogo un gallo colpevole di aver deposto un uovo contro le leggi della natura, perché considerato diavolo sotto mentite spoglie, ovviamente fu dato alle fiamme anche l’uovo. Una stranezza della natura, se vogliamo dal sapore quasi diabolico che comunque con il diavolo non ha nulla a che fare, piuttosto un’aberrazione di un fenomeno naturale. Ma in quei tempi considerare siffatte ‘stranezze’ opere di streghe e del demonio era una pratica che nell’esercizio dell’imposizione del potere tramite il Tribunale della Santa (?) Inquisizione almeno nelle intenzione era un sistema per mettere a posto ogni cosa e rimaneggiare e infuocare di eresie ipotesi e concetti teologici nonché dogmi che comunque necessitavano di una revisione o quanto meno di una migliore interpretazione chiarificatrice in linea con la libertà di pensiero anche scientifico. Ma era come chiedere a un lupo di cinguettare, gli inquisitori belli paffuti con le vesti larghe e tracotanti di presunzione con i crocifissi in bella mostra sotto mentite spoglie, appunto, erano loro a servire il demonio.

C’è da chiedersi: nel processo chi avrebbe sostenuto la difesa del povero gallo? semmai l’avesse avuta. E come avrebbe l’inquisitore allestito l’incidente probatorio? Il gallo non avrà capito un bel niente; avrebbe voluto continuare a dare la sveglia, farsi un pollaio con tante galline, per poi finire sulla tavola di un contadino. Ma se almeno avesse avuto l’accortezza di nascondere il frutto del concepimento, invece no, l’orgoglio di avere fatto qualcosa di eccezionale gli fu fatale. Rimane dunque la memoria di una morte decisa e attuata per volontà di Dio trasmessa indegnamente agli uomini di poca  volontà.