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Rita Levi Montalcini, orgoglio italiano

Non c’è più. Ma ci ha lasciato il suo sorriso e il suo stile di donna seria e di scienziata. Esempio da seguire e da tenere a mente.

Le sue parole <Quando muore il corpo, sopravvive quello che hai fatto. Il messaggio che hai dato>, a noi, orfani,  il compito di interpretarle nella loro interezza ed estrapolare l’essenza del significato. La sua vita è stata dedicata alla scienza e alla vita, all’uomo e al suo futuro, con discrezione ed eleganza, mite e geniale.

Una donna eccezionale che oggi colpisce per la sua immagine seria,sorridente, mai arrogante o presuntuosa. Abbiamo tutto da imparare da Lei. Si è sempre occupata dei giovani capaci e e meritevoli, disse <L’Italia è un paese ricco di giovani capaci, nessun paese ha la ricchezza in termini di capitale umano del nostro. Dico ai giovani: non pensate a voi stessi, pensate agli altri. Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare, e non temete niente>

E' MORTA RITA LEVI MONTALCINI /SPECIALE

Scritti sul pensiero medievale, Umberto Eco, Editore Bompiani

Che libro! Scritti sul pensiero medievale, Bompiani Editore.

Un grande libro scritto da Umberto Eco, semiologo, filosofo e scrittore italiano di fama internazionale. Saggista, ha scritto numerosi saggi di semiotica, estetica medievale, linguistica e filosofia, oltre a romanzi di successo.

Laureatosi in filosofia nel 1954 all’Università di Torino con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino, iniziò a interessarsi di filosofia e cultura medievale.

umberto eco1In Scritti sul pensiero medievale sono raccolti gli scritti già pubblicati da Eco, che ha voluto riunire per dare testimonianza della sua continua attenzione alla filosofia, all’estetica, alla semiotica medievale. Il libro  raccoglie tutti i testi dello scrittore: i saggi su Tommaso d’Aquino, il linguaggio, Dante, alcune letture contemporanee del periodo per dare l’immagine di un’epoca incentrata sulla problematica estetica, includendo concetti filosofici connessi con la Bellezza, l’arte e i rapporti di questa con la morale dell’uomo.

Dieci modi di sognare il Medioevo è uno dei capitoli in cui l’Autore si chiede: Quando si inizia a sognare il Medioevo? e considerato che il Medioevo è associato al concetto di notte, di buio, lo si inizia a sognare quando sorge il nuovo giorno. Questa è la sua risposta, anche perché il Medioevo rappresenta il crogiolo dell’europa ed ella civiltà moderna. <Il Medioevo inventa tutte le cose con cui stiamo ancora  facendo i conti, le banche e la cambiale, l’organizzazione del latifondo, la struttura  dell’amministrazione e della politica comunale, le lotte di classe e il pauperismo, la diatriba tra Stato e Chiesa, l’università, il terrorismo mistico, il processo indiziario, l’ospedale e il vescovado, persino l’organizzazione turistica: sostituite le Maldive con Gerusalemme e avete tutto, compresa la guida Michelin>

Profilo letterario

Le storie raccontate sono realmente accadute oppure leggende che hanno come protagonisti personaggi celebri storici oppure sconosciuti e attraverso di essi coordina e sviluppa dibattiti filosofici su Dio, la natura, l’universo, anche con una buona dose di umorismo. Le citazioni in latino sono le sue armi letterarie preferite per scolpire meglio la storicità degli eventi e dei personaggi.

Ne Il nome della rosa Eco tratta al questione del riso,  mettendo in risalto le paure, i pregiudizi, le liturgie asfissianti della cultura del medioevo.

Ne Il pendolo di Foucalt rimette un po’ d’ordine sui misteri del sacro Graal e  sui cavalieri Templari.

Ne L’isola del giorno prima il naufrago Roberto de la Grive è alla ricerca di un’isola fuori del tempo e dello spazio.

In Baudolino il personaggio medievale narrato viaggia alla ricerca di un paradiso terrestre.

Ne La misteriosa fiamma della regina Loana analizza e riflette sulla natura e sulla forza del ricordo; in questo caso però rivolti a episodi accaduti nel XX secolo.

Ne Il Cimitero di Praga prevalgono nella narrazione riflessioni sulle cause della persecuzione degli Ebrei e sulla natura del complotto.

Università Popolare – Galatina – Mercoledì 9 gennaio 2013, ore 18,00

Università Popolare “Aldo Vallone” Galatina

Mercoledì 9 gennaio 2013

ore 18,00

Museo Civico “Pietro Cavoti”

Palazzo della Cultura

Piazza Alighieri, 51

Galatina

Poeti e prosatori salentini contemporanei presentati da Paolo Vincenti:

 Elio Ria,

autore

de “Il passo della notte” Lupo editore, 2012

(con la partecipazione di Antonio D’Aprile).

Il bisogno di un augurio, ancora

Vorrei fare a tutti voi miei amici gli auguri di Buon Natale. Poi ci penso e non mi sembra il caso di dovermi ripetere, come fanno tanti, con una formula così consunta.

Dovrebbe questa festa dirci cose importanti, ricordarci un evento speciale ma per molto tempo è stata assimilata soltanto alla frenesia del divertimento, delle spese folli e delle vacanze in località di prestigio. La liturgia, la messa e altro roba per vecchi. Cinema affollati, ristoranti stracolmi, regali superflui, carte di credito, abbuffate per una festa che va consumata con avidità.

Quest’anno le cose si presentano in malo modo. Il superfluo che in tanti anni ha dominato la vita di ognuno di noi ha generato il suo opposto: il necessario. E ora? Un bel problema. Ci troviamo fuori dalla porta del mondo incantato, voluto ad ogni costo. E le mani sono vuote. Le carte di credito sono diventate debiti da onorare, il lavoro seppure garantito dalla Costituzione è un miraggio, il mutuo ipotecario incombe come un macigno e non si pagano le rate, la benzina troppo cara, le assicurazioni stratosferiche, l’imu ha prosciugato le tredicesime.

Ma è Natale! Come per dire non pensiamo troppo alle sventure, ora è tempo di divertimento, i consumi si devono fare. Sia luce di stelle e alberi con addobbi di ipocrisia. Le etichette non possono essere scucite. Meglio uno stupore immediato che un’aspettativa a medio termine. Funziona così?

Ne riparleremo dopo, continuiamo a illuderci.

Allora, auguri a tutti voi, ancora… giacché neanche io posso sottrarmi da questa illusione di Natale, festa che non consente rimandi, rinunce e soprattutto il noioso e ripetitivo augurio di Buon Natale.

Avere torto

 

 

 

Provare che ho ragione significherebbe riconoscere che posso avere torto.

(Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais, Il matrimonio di Figaro, 1778/84)

Riconoscere di avere torto significa avere la consapevolezza di non avere agito bene, calpestando o umiliando un altro uomo. L’orgoglio è il peggiore nemico della giustezza delle cose umane e farne a meno  si darebbe prova di moralità, coerenza e ubbidienza verso i principi della coscienza.

Non va bene la frase <Che ho fatto di male?> che è già un’ammissione di colpa, nonostante nel suo significato vuole dire che non si è fatto nulla di cui pentirsi. Avere torto qualche volta fa bene, attua un meccanismo di ripensamento delle azioni e delle modalità di comportamento, inoltre completa il segmento della ragione di cui non se n’è fatta  uso.

Ammettere di avere ragione per mettere in discussione la ragionevolezza di avere torto è segno di saggezza e di maturità. Coloro che non sbagliano mai sono ipocriti e falsi.

Sezionare la ragione per non perdersi nei labirinti delle false certezze e considerare la probabilità dell’errata interpretazione e non tentare con ogni mezzo di invalidare con la dialettica le ragioni dell’interlocutore con cui si dibatte, preferendo  metterlo in contraddizione per far passare lui dalla parte del torto.  Schopenhauer per tali ragioni  contesta ad Aristotele l’errore di non avere definito nettamente la differenza tra logica e dialettica, sostenendo che la dialettica ha lo scopo di disputare che quello di ricercare la verità. E allora dichiarare di avere torto non deve intendersi come una colpa, piuttosto una disponibilità al confronto e al dialogo per capire meglio qualcosa che riguarda la verità, che non è mai definita, completa e assoluta ma frammentaria, solubile in mille altre verità, affetta da metastasi di presunzione, condita da pregiudizi, imposizioni psicologiche e religiose, madre di menzogne.

Avere torto per tentare di avere una ragione per aver gracchiato concetti, agito con obesità di principi, scritto, diffuso, pubblicato, inesattezze, imprecisioni, idee contorte, proclami e orazioni da condurre se non al fanatismo almeno alla mala fede.

Maschera antigas di Fabio FaraOne

Il successo oggi si misura in internet, in particolar modo su Youtube dove le visualizzazioni decretano il successo e il gradimento di un brano musicale. Un mezzo mediatico che consente ai gruppi musicali emergenti di esprimere in tutta libertà il loro estro creativo e conquistare magari un pezzo di notorietà. Youtube, per sua stessa natura, è cross mediale, una via di mezzo tra la televisione ufficiale e le dinamiche di divulgazione in senso lato.

Fabio FaraOne, giovane talento ventenne di Tuglie, con il suo video Maschera antigas, pubblicato il cinque dicembre su Youtube e realizzato dallo studio Better Day Record, in pochi giorni ha totalizzato un numero considerevole di “Mi piace”. Il video denuncia comportamenti e vizi di una società che ha smarrito il senso della misura: un degrado che rimanda ad altre condizioni sociali che è ben raffigurato nel video con immagini di auto in fase di rottamazione. Un mondo che non è condiviso dai giovani e che con rabbia e passione esternano attraverso la musica. Il disagio è fin troppo evidente e le parole un po’ forti e condite di stereotipi della contestazione comunicano una nevralgia della ragione però con affermazioni lapalissiane.

Il genere musicale del tipo elettronico è dubstep con ritmiche sincopate che ha le sue radici a Londra nei primi anni 2000. Nel corso degli anni ha assunto sonorità che si sono spostate da bassi e sub-bassi e toni medi, in una sorta di miscuglio di electro. In Italia il dudbstep si è sviluppato come un’evoluzione della drum’bass.

Maschera antigas si appiccica nella testa senza lasciare scampo, ben costruito, con un impatto visivo spalmato su uno sfondo di azzurro che è gradevole a significare l’innocenza e la voglia di un cambiamento che sappia costruire le architetture di un futuro di cui si denuncia l’assenza generazionale.

Fabio FaraOne è il nome d’arte di Fabio Latino, che ha fatto della sua musica una bandiera e anche nel suo modo di vestire, nel taglio dei capelli vuole rappresentare un simbolo musicale che ha qualcosa da dire in una prospettiva futura con la produzione di un linguaggio musicale nuovo, magari, miscelato con altri ma trasformandolo in qualcosa di speciale, che non va considerato fracasso ma essenzialmente un linguaggio comunicativo, coinvolgente e liberatorio, capace di offrire espressività altrimenti impossibili, contribuendo così a costruire il suo mondo.

La musica per i giovani ha un potere straordinario che non deve essere considerato soltanto una successione di suoni, un divertimento estemporaneo, ma un’influenza considerevole sul loro modo di vivere con la creazione di un mondo valoriale che può convivere con gli altri sistemi valoriali proposti-imposti dalla famiglia e dalla scuola.

Nell’immaginazione dell’idea del libro di Paolo Vincenti

Accade che una copertina di fuoco con impresso una bestia assomigliante a un grosso serpente con quattro zampe, in circolarità su stessa si morde la coda con occhio allucinato, desti non pochi interrogativi e meraviglie.

Cos’è questa storia di copertina? E il titolo “La bottega del rigattiere”? E poi un lupo (logo dell’editore), in posizione comoda per ululati di pubblicazione. C’è dunque da leggere qualcosa. Ma in attesa di avere il libro fra le mani, qualche azzardo di commento si può fare su questa immagine viva ed efficace che potrebbe anche evocare il fuoco, la magia. Che ci sia di mezzo il diavolo? associato al mestiere di rigattiere, maestro delle cose occulte? E quali saranno le cose di cui Paolo Vincenti, il rigattiere, ci delizierà? Ci parlerà forse dei tessuti di broccato d’oro, tappeti, tende, cuscini o coperte di seta, pellicce, abiti talari o tonache, cassoni decorati, coperte da cavallo, gualdrappe, oggetti antichi di culto, libri di filosofi, testi sacri antichi? Oppure ci racconterà storie di fuoco, roghi, streghe? O ancora storie del tempo andato, di un passato che ancora arde nel presente e non accenna a spegnersi? Forse ci racconterà storie minime di contadini, artigiani, gente comune nel presente di un tempo sempre in conclusione di affari e fortune.

Paolo Vincenti, diavolo di uno scrittore che scombina le idee ordinate del lettore per travolgerlo nelle righe dei suoi testi narrativi e ammaliarlo con le sue leggi della grammatica e dell’invenzione letteraria. Come un divino legislatore non si cura di parlare secondo verità, ma in grazia e in virtù della fantasia, pratica di cui è profondo conoscitore. Invero trae dalla quotidianità della vita appigli di regola per farne eccezioni, singolari, avventure letterarie in linea con il linguaggio che sboccia nelle arti della memoria per individuare le radici delle storie e delle cose nel senso di ineluttabilità dove tutto è univoco, immutabile, stabilito, nulla deve essere spiegato, tutto accade perché deve soltanto accadere.

Di certo l’immagine della bestia raffigurata sulla copertina non spaventa, sembra quasi che voglia giocare con la sua coda. C’è anche da evidenziare che la bestia o Satana in letteratura sono stati ampiamente evocati. Per citare alcuni esempi John Milton con il suo poema Il paradiso perduto, George Byron ebbe a cuore gli aspetti demoniaci della vita. Perfino Giacomo Leopardi fu un cantore di Satana nel Canto ad Arimane, Baudelaire con le Litanie di Satana.

Chissà quali sorprese ha la bottega del rigattiere, nel frattempo prima degli attacchi del demonio Vincenti, sarebbe opportuno mettersi in prima fila per la serata della prima.

La mia solitudine

lamiasolitudine
“Quella dell’autore è una poesia del contemporaneo. Ria osserva. Se stesso. Il suo mondo che costruisce e ricostruisce. La sua storia e la storia che dialoga con la sua storia. È un poeta che immagina, riproduce le proprie immagini, richiama immagini. È irritato dal ricordo. Descrive la sua anima invisibile, come “un vulcano in eruzione/fuoco che brucia il silenzio”. È un uomo di fronte a sé. Un uomo che cerca di osservare la sua memoria, che cerca nello specchio dell’anima i frammenti della propria esperienza, ciò che resta delle illusioni. Così in Succede anche questo: “tutto mi è estraneo/non vedo la mia immagine/sento di non essere”. Il poeta fa i conti con gli esorcismi. La danza come esorcismo verso il quotidiano rituale, contro la liturgia stanca delle convenzioni. La fuga verso l’irrazionale”.

(Giuseppe Mormandi)

L’arte di scrivere a mano – Che fine ha fatto l’esercizio della bella scrittura?

La scrittura a mano è un esercizio piacevole che dà soddisfazione. Una lettera scritta con le proprie mani ha un altro sapore linguistico ma anche una denotazione di come si è. La tastiera ha sopraffatto la biro, la vecchia cara biro, che ha scritto milioni di messaggi indirizzati a familiari e amici. Adesso un sms risolve tutto con abbreviazioni e sterile impatto emotivo. Per scrivere con la tastiera non serve una bella calligrafia essendo le lettere omologate e standardizzate secondo caratteri predefiniti.

La scrittura a mano è in disuso, appartiene al passato, sono poche le persone che ancora ne fanno uso, eppure va in qualche modo preservata anche per evitare il rischio di dipendere soltanto dalla tecnologia. Un modo per ricordare di scrivere correttamente le parole mettendo da parte le ossessive e onnipresenti abbreviazioni che sconfortano e infastidiscono. Certo bisogna rendere tutto più veloce, anche la scrittura purtroppo deve assoggettarsi a questo comandamento. Quarant’anni fa nelle scuole elementari il maestro insegnava l’arte della bella scrittura e rendeva orgoglioso lo scolaro che prima doveva cimentarsi nella brutta copia e poi nella bella copia. Ma ancora prima doveva esercitarsi con le aste e i cerchi e poi passare alle lettere tonde e miste, miste con gambe verso il basso e prolungamenti verso l’alto, in un impegno costante per un testo pulito, senza macchie e chiaro.

Adesso per molti c’è la difficoltà di realizzare manualmente e correttamente i grafemi, rendendo la propria scrittura indecifrabile con segni di scrittura nervosi e svogliati. Dopo l’Unità d’Italia la Bella scrittura è presente nei programmi formativi ministeriali per tutte le scuole ed esistevano manuali per apprenderne l’arte e imparare a scrivere correttamente. 

Nostalgia? No! Piuttosto una riflessione che, al di là delle comparazioni con gli attuali  sistemi di comunicazione, invita a rivisitare un mondo di parole scritto  con gli artifici e l’estro dell’arte. Quel mondo forse oggi chiede di essere rivisitato, studiato per non continuare ad esagerare con la scrittura della tastiera. 

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Articoli correlati

Il diario di Anna, le lettere di Elsa, la grafia di Dino, in “Corriere della Sera”, 03 dicembre 2013, consultabile al link del Corriere della Sera 

Il corsivo ultima frontiera della scuola?, Massimo Carlo Giannini, in ” Treccani”, 05 dicembre 2013, consultabile al link della Treccani 

L’inferno

Inferno è il termine con il quale in ambito religioso, si indica il luogo metafisico (o fisico) che attende, dopo la morte, le anime (o i corpi) degli uomini che hanno rifiutato Dio scegliendo in vita il male ed il peccato. Più propriamente, il termine “Inferno” deriva dal latino “infernus”, cioè “posto in basso”, “inferiore”, ed è quindi sinonimo di “inferus”; tuttavia, la parola “inferno” è da riferirsi solo al concetto delle tre grandi religioni monoteistiche, mentre la parola “inferi” si può, più ampiamente, riferire a tutte le altre culture pagane antiche e moderne.

(da Wikipedia)

Immagini di un possibile inferno.

Dell’infermo mi appresto a studiare ogni cosa per imparare come bruciarmi meglio. In quelle fiamme dorate sempre in vita le cose oscure finalmente avranno luce. E sarà possibile capire. Nella moltitudine delle fiamme l’astuzia del diavolo non avrà più fortuna e cadranno le sue corna. Si potranno leggere le versioni di tutti i libri e nessuno indicherà l’indice. Luce di fuoco che arde: l’ambizioso non avrà carriera, l’usuraio odierà il tasso di intensità di luce, il filosofo si arrogherà il diritto all’impunità avendo già dato in passato. Ognuno avrà il suo inferno.

Rifare l’uomo

<Il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario> afferma Quasimodo <più delle scienze e degli accordi tra le nazioni, che possono essere traditi>

L’esperienza tragica e al contempo traumatica della guerra ebbe un’importanza decisiva nella vita e nell’arte di Salvatore Quasimodo. Attraverso essa Quasimodo, costretto a fare i conti non più soltanto con la sua dimensione individuale, ma con una tragica situazione storica, perviene a un cambiamento radicale non solo dal punto di vista umano ma soprattutto poetico.

Il compito che si impone all’intellettuale non è, per Quasimodo, tanto quello di raffinata rielaborazione formale di nobili sentimenti, ma quello più urgente di “rifare l’uomo”

<Io non credo> scrive Quasimodo <alla poesia come consolazione, ma come strumento a operare dentro l’uomo>. Il poeta non può consolare nessuno, il suo impegno è quello di rifare l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, confuso, sofferente, angosciato, del quale conosce i pensieri, le ansie, la voglia di fare.

Tuglie – Biblioteca Comunale – 24 novembre 2012 –

Presentazione del libro Una dottrina <assai strana> di Ilario Belloni, con Elio Ria e Mario Carparelli.

Nel riferirsi alla sua teoria della legge naturale, John Locke non esita a definirla «una dottrina assai strana». Di tale dottrina questo volume tenta una reinterpretazione e un approfondimento critico, traendo spunto dalle letture “teologiche” dell’opera filosofico-politica e giuridica lockiana, ma senza trascurare l’altra faccia di quello che è stato definito il “modello creaturale”, ovvero gli esiti imprevisti della riconduzione della legge naturale al rapporto creatore-creatura.

Vedi il sito di Giappichelli Editore 

L’ultima sigaretta, Italo Svevo

La malattia si preannuncia  senza alcunché di preavviso e impone  divieti, cure e cambiamento di abitudini.  Zeno, protagonista del romanzo La coscienza di Zeno di Italo Svevo, per un forte mal di gola è obbligato ad astenersi dal fumo, ma nonostante il divieto continua a fumare di nascosto. Ne consegue un senso di colpa e lo sforzo di liberarsene con continui buoni propositi, disattesi.

La malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio amico maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto.  Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime. 

Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato.

<Oggi, 2 febbraio 1886, passo dagli studi di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta>

Adesso che sono qui, ad analizzarmi, io sono colto da un dubbio: che io forse abbaia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità. Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo. Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e  da proposito a sigaretta. 

Che cosa significano oggi questi propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto da Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita? 

Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. si dice con un bellissimo atteggiamento: <mai più!>. Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito, Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai, da me, solo da me, ritorna.

L’ultima sigaretta è soltanto un rinvio ad un’altra, ancora. E il tempo non deciderà l’attimo di smettere di fumare, ritorna e ritorna in una sorta di continuo presente in cui si fonde il tempo interiore della memoria e della speranza. Tutto va piacevolmente e dannatamente in fumo.

Lavandare (Giovanni Pascoli)

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero

resta un aratro senza buoi, che pare

dimenticato, tra il vapor leggero.

 

E cadenzato dalla gora viene

lo sciabordare delle lavandare

con tonfi spessi e lunghe cantilene.

 

Il vento soffi e nevica la frasca

e tu non torni al tuo paese!

quando partisti, come son rimasta!

come l’aratro in mezzo alla maggese.

 

(Poesie, Mondadori, Milano, 1978)

 

 

 

Nel melanconico paesaggio della campagna autunnale, mezzo grigio e mezzo nero,  c’è un aratro abbandonato. dal vicino torrente giungono gli echi del lavoro “delle lavandare”  e la cantilena di fatica,  di un amore tradito,  di una vana attesa dopo l’abbandono.

Sulla campagna con i suoi colori spenti e tristi, il poeta proietta uno stato d’animo malinconico. La lirica presenta sul piano stilistico molti aspetti tipici del simbolismo pascoliano: un linguaggio intenso di onomatopee e richiami musicali.

Giovanni Agostino Placido Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta italiano e una figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento.